10  Abbandonare tutti i punti di vista

10.1 Introduzione

Nel pensiero filosofico del Mahāyāna, pochi autori hanno avuto l’impatto di Nāgārjuna, fondatore della scuola Madhyamaka e autore del Mūlamadhyamakakārikā (Versi Fondamentali sulla Via di Mezzo). Quest’opera, centrale nella tradizione buddhista, inizia e termina con un’idea radicale: la cessazione della concettualizzazione e l’abbandono di tutti i punti di vista. Per Nāgārjuna, il nirvana non è un luogo o uno stato da raggiungere, ma il completo esaurimento di ogni concetto metafisico, epistemico e dogmatico. Come scrive Stepien (2019), il testo si apre con un inno alla via di mezzo (madhyamā pratipat), che rifiuta gli estremi di esistenza e non-esistenza:

Non cessando, non sorgendo
Non annientato, non eterno
Non identico, non diverso
Non venendo, non andando
Co-origine dipendente
Come la felice cessazione della concettualizzazione
Questo è ciò che il Buddha Completamente Illuminato ha insegnato
Lo saluto, il migliore degli oratori
(MK0:1–2).

Queste parole stabiliscono immediatamente il nucleo della filosofia di Nāgārjuna: la realtà non può essere ridotta a categorie dualistiche (esiste/non esiste, permanente/transitorio), ma si rivela solo quando si abbandona ogni tentativo di fissarla in concetti rigidi.

10.2 Decostruzione delle Categorie Ontologiche

Nāgārjuna sfida le posizioni filosofiche tradizionali dell’India classica, concentrandosi sulla decostruzione delle costruzioni concettuali che ipostatizzano realtà come lo spazio, il tempo e la sostanza. Nel capitolo 5 del Mūlamadhyamakakārikā, critica chi accetta acriticamente l’esistenza o la non-esistenza delle cose:

Ma quelli privi di illuminazione mentale
Accettando l’esistenza o la non-esistenza delle cose
Non percepiscono la gioiosa cessazione
Di ciò che deve essere compreso (MK5:8).

Per Nāgārjuna, la liberazione (mokṣa) non sta nel credere a un sistema di verità, ma nel cessare di attribuire sostanza a idee e oggetti. Chi si attacca alla dicotomia “esiste/non esiste” rimane intrappolato nell’illusione (avidyā), incapace di cogliere il nirvana come «cessazione gioiosa» dell’ipostatizzazione.

Nel capitolo 9, Nāgārjuna applica questa critica all’atto percettivo stesso. Nessun fenomeno — né il vedere, né il percettore — può essere definito esistente o non esistente:

Ciò che è anteriore al vedere e al resto
O simultaneo con essi, o successivo ad essi—
Non si trova
Le costruzioni concettuali di esistenza e non-esistenza non si applicano lì (MK9:12).

La percezione sfugge a ogni classificazione, perché la realtà che ci precede e trascende non si lascia imprigionare da categorie mentali. Questo non-dualismo dissolve la nozione di un sé autonomo (anātman) e implica che sia l’atto percettivo che il suo soggetto trascendano le distinzioni dualistiche di “essere” e “non essere”.

10.3 Origine Dipendente, Vacuità e Designazione Correlativa

Nel capitolo 24, Nāgārjuna unifica tre concetti chiave del Buddhismo Mahāyāna, rivelando la loro interdipendenza:

  1. Pratītyasamutpāda (origine dipendente): Tutti i fenomeni sorgono in relazione a cause e condizioni.
  2. Śūnyatā (vacuità): L’assenza di esistenza intrinseca in ogni fenomeno.
  3. Prajñaptir upādāya (designazione correlativa): La natura convenzionale dei concetti, dipendenti da contesto e linguaggio.

Come scrive Nāgārjuna:

Dichiariamo che l’origine dipendente è vacuità.
È un concetto dipendente; proprio questo è il sentiero di mezzo (MK24:18).

Questa triade costituisce la via di mezzo (madhyamā pratipat), che rifiuta sia l’eternalismo (esistenza intrinseca) sia il nichilismo (non-esistenza assoluta). La vacuità non è un vuoto astratto, ma la consapevolezza che ogni cosa è relazionale e priva di sostanza. Persino la vacuità stessa è vuota: non è un’entità ultima, ma uno strumento per dissolvere le illusioni.

10.4 L’Abbandono delle Vedute e la Liberazione

Nel capitolo 13, Nāgārjuna enfatizza che la vacuità non deve diventare essa stessa una veduta fissa. Chi la adotta come dottrina rigida è definito “incurabile”:

La vacuità come rinuncia a tutte le vedute
È stata proclamata dai Vittoriosi
Ma coloro che hanno adottato la vacuità come veduta
Sono gli incurabili (MK13:8).

La vacuità è uno strumento di liberazione, non un dogma. Essa dissolve l’illusione di un sé separato, permettendo alla mahākaruṇā (grande compassione) di manifestarsi senza limiti. Nel capitolo 18, Nāgārjuna collega esplicitamente la liberazione alla distruzione delle azioni (karma) e delle contaminazioni (kleśa), che nascono da concettualizzazioni errate:

La liberazione si ottiene attraverso la distruzione delle azioni e delle contaminazioni;
le azioni e le contaminazioni sorgono a causa di concettualizzazioni falsificanti;
queste sorgono dalla ipostatizzazione;
ma l’ipostatizzazione si estingue nella vacuità (MK18:5).

La realtà, conclude Nāgārjuna, è libera da ogni natura intrinseca e concettualizzazione:

Non da ottenersi tramite altri, libera [dalla natura intrinseca], non popolata dall’ipostatizzazione,
priva di concettualizzazione falsificante, non avente molti significati separati — questa è la natura della realtà (MK18:9).

10.5 Il Non-Dualismo e la Compassione Universale

La decostruzione di ogni punto di vista non conduce al silenzio passivo, ma a uno spazio produttivo dove la compassione (karuṇā) può fiorire senza limiti. Quando si abbandona l’illusione dell’io separato (anātman), si realizza che:

  1. Sospensione dell’Io: Senza un “sé” da proteggere, la mente non reagisce con difesa alla sofferenza altrui.
  2. Spazio della Vacuità: In assenza di dualità soggetto/oggetto, non esistono barriere tra “chi soffre” e “chi assiste”.
  3. Motivazione Non-Condizionata: La cura sgorga naturalmente, libera da interessi personali o aspettative.

Come nota Garfield (2022), questa visione non è astratta, ma prassi trasformativa: decostruire ogni veduta prepara il cuore a una compassione che abbraccia tutti gli esseri senza eccezioni. La mahākaruṇā diventa la manifestazione attiva della saggezza (prajñā) che ha superato ogni confine concettuale.

10.6 Nāgārjuna, Derrida e Wittgenstein: Ponti tra Oriente e Occidente

La filosofia di Nāgārjuna trova sorprendenti paralleli nel pensiero occidentale contemporaneo, specialmente nelle opere di Jacques Derrida e Ludwig Wittgenstein. Queste connessioni non sono superficiali, ma rivelano una convergenza profonda nell’obiettivo di smascherare i limiti del linguaggio e dei sistemi concettuali.

Come Nāgārjuna, Derrida critica l’ipostatizzazione delle strutture linguistiche e concettuali. Nella sua teoria della decostruzione, Derrida sostiene che nessun concetto è autosufficiente: ogni termine è definito in relazione a altri, creando una rete infinita di rimandi. Questo rifiuta l’idea di significati fissi, simile alla visione di Nāgārjuna, per cui ogni fenomeno è pratītyasamutpanna (condizionato) e privo di sostanza. Derrida scrive che il soggetto è “inscritto nel linguaggio” e legato a una rete di relazioni, un’idea affine alla śūnyatā come negazione di un sé autonomo (Derrida, 1982). Per entrambi, la liberazione passa attraverso l’abbandono delle costruzioni concettuali che alimentano l’illusione dell’identità.

Anche Wittgenstein, specialmente nel Tractatus Logico-Philosophicus e nelle Ricerche Filosofiche, mira a “liberare” la mente dalle trappole del linguaggio. Nel Tractatus, conclude con un paradosso: “Chi comprende l’opera riconosce che i suoi enunciati sono insensati, dopo averli usati come scala per oltrepassarli” (Wittgenstein, 1974). Questo richiama il ruolo della vacuità come strumento da abbandonare una volta servito al suo scopo. Nelle Ricerche, Wittgenstein analizza il linguaggio come un insieme di “giochi” contestuali, rifiutando l’esistenza di significati universali. Così come Nāgārjuna smonta le dicotomie esistenza/non-esistenza, Wittgenstein smaschera le illusioni generate da un uso metafisico del linguaggio.

Nonostante le differenze culturali, Nāgārjuna, Derrida e Wittgenstein condividono un obiettivo comune: dissolvere le illusioni concettuali che ostacolano la comprensione della realtà. Tutti e tre usano il ragionamento non per costruire sistemi, ma per smantellare le pretese dei concetti di catturare l’assoluto. Come osserva Garfield, “la via di mezzo di Nāgārjuna e la decostruzione di Derrida condividono la consapevolezza che la realtà trascende ogni descrizione linguistica” (Garfield et al., 2025).

10.7 Conclusioni

La filosofia di Nāgārjuna non è solo un’analisi critica della metafisica, ma un invito a una trasformazione radicale della percezione. Quando si abbandonano le vedute fisse, si dissolve l’illusione dell’io separato, creando lo spazio per una compassione (karuṇā) non condizionata da identità, ruoli o aspettative. Questo stato è il cuore dell’ideale del bodhisattva: agire nel mondo senza attaccamento, motivati da un amore universale.

La connessione con Derrida e Wittgenstein rivela una verità profonda: ogni sistema concettuale è un’ancora che limita la libertà della mente. La via di mezzo di Nāgārjuna, la decostruzione di Derrida e la “terapia linguistica” di Wittgenstein convergono in un messaggio unico: la realtà non si conforma ai nostri schemi, ma si rivela solo quando li lasciamo cadere. In questo spazio “oltre le vedute”, la compassione diventa il linguaggio autentico di una mente libera — non un’emozione, ma una forza trasformativa che dissolve i confini tra sé e altro.

Bibliografia

Derrida, J. (1982). Margins of philosophy. University of Chicago Press.
Garfield, J. L. (2022). Buddhist ethics: A philosophical exploration. Oxford University Press.
Garfield, J. L., Heim, M., & Sharf, R. H. (2025). How to Lose Yourself: An Ancient Guide to Letting Go. Princeton University Press.
Stepien, R. K. (2019). Abandoning all views: A buddhist critique of belief. The Journal of Religion, 99(4), 529–566.
Wittgenstein, L. (1974). Tractatus Logico-Philosophicus (A. G. Conte, Trad.). Einaudi.