2 Come dissolvere l’ego: insegnamenti antichi per la libertà interiore
2.1 Introduzione
Prima di sondare a fondo il ruolo della karuṇā nel percorso soteriologico del Buddhismo Mahāyāna, è essenziale chiarirne il fondamento filosofico: il legame tra compassione e śūnyatā, concetto intimamente connesso alla dottrina della pratītyasamutpāda (origine condizionata). Vivere l’interdipendenza in modo autentico – non come mera astrazione teorica, ma come esperienza incarnata – richiede una trasformazione radicale del sé e il superamento dell’illusione di un’identità sostanziale. Questa metamorfosi interiore si radica nella comprensione dell’anātman (non‑sé), tema centrale dei primi insegnamenti del Buddha, presentato nei sermoni immediatamente successivi al risveglio, come il Dhammacakkappavattana Sutta.
Nel Buddhismo Theravāda l’anātman si applica alla natura dell’individuo, smascherando l’idea di un sé permanente. Il Mahāyāna estende questa intuizione a tutti i fenomeni attraverso il concetto di śūnyatā (vacuità), che nega l’esistenza intrinseca di qualsiasi entità. Tale estensione non è un esercizio speculativo: costituisce la condizione necessaria per una compassione genuina, poiché solo la consapevolezza dell’interconnessione universale dissolve i confini tra sé e altro, tra soggetto e oggetto.
Di conseguenza, la śūnyatā non è un vuoto astratto, bensì la premessa ontologica dell’agire compassionevole. Per approfondire questa relazione, dedichiamo un capitolo specifico per discutere alcuni aspetti di questo tema così come sono stati presentati nel testo recentemente pubblicato da Garfield et al. (2025), How to lose yourself, che offre una chiara introduzione sul rapporto tra metafisica e pratica etica nel pensiero mahāyāna.
2.2 Rivedere il Sé: interconnessione, non‑sé e natura della realtà
Viviamo in una cultura fortemente incentrata sull’“io”: siamo incoraggiati a “scoprire noi stessi”, promuoverci, coltivare l’autostima, diventare individui autonomi. Parliamo di autocoscienza, autorealizzazione, interesse personale. Sembra che l’esistenza di un “sé” solido, stabile e separato sia il fondamento della nostra identità e della nostra ricerca di felicità.
La prospettiva buddhista invita però a riconsiderare radicalmente questa ossessione. Secondo l’insegnamento fondamentale del Buddha, il continuo pre‑occuparsi di un “io” fisso non solo travisa la natura della realtà, ma costituisce anche la principale causa della sofferenza.
La ricerca di un sé solido e l’intuizione del non‑sé
Che cosa troviamo se cerchiamo dentro di noi questo “sé” stabile? Un flusso incessante di pensieri, emozioni, sensazioni corporee, ricordi, percezioni: un’esperienza che cambia di momento in momento. Il corpo invecchia, le emozioni mutano, i pensieri si alternano. Dov’è, in questo divenire, un “io” immutabile e indipendente?
L’analisi buddhista rivela che non esiste un’essenza permanente al di là dei cinque aggregati (corpo, sensazioni, percezioni, formazioni mentali, coscienza). Questa intuizione è detta anātman (“non‑sé”). Ciò non implica che non esistiamo come individui: convenzionalmente abbiamo bisogno di nomi, identità, pronomi. Esiste una continuità esperienziale – l’“io” di oggi ricorda quello di ieri – ma tale continuità è un processo dinamico, come la fiamma di una candela che sembra la stessa pur rinnovandosi costantemente, o come un fiume che è sempre lì ma le sue acque cambiano costantemente.
L’errore non sta nell’usare “io” nel linguaggio quotidiano, bensì nel credere che questo termine rimandi a qualcosa di ultimamente reale, a un’entità autonoma e separata. Proprio tale credenza alimenta ansia, paura e attaccamento: un sé che si immagina solido teme perdita, cambiamento e separazione.
2.3 Dal Buddhismo delle origini al Mahāyāna
L’emergere del Mahāyāna attorno all’inizio del I millennio ha generato nuovi approcci alla dottrina delle due verità, alla vacuità e, di conseguenza, a nuove analisi dell’assenza di un sé personale. In parte, questi sviluppi proseguono tematiche del Buddhismo antico – l’insistenza sulla mancanza di un sé pur ammettendo l’esistenza dei “personaggi” – ma la distinzione tra le due verità si trasforma in una distinzione fra due livelli di realtà.
Il Buddhismo Mahāyāna indiano comprende due grandi scuole: Madhyamaka (Via di Mezzo) e Yogācāra (Solo‑Mente). La prima, inaugurata dai Sūtra della Perfezione di Saggezza e dall’opera di Nāgārjuna (II sec. d.C.), mette in luce l’assoluta vacuità di tutti i fenomeni da un’identità intrinseca e la loro realtà convenzionale in quanto fenomeni dipendenti: esistono grazie a cause e condizioni, alle parti che li compongono, ai contesti in cui appaiono, e ricevono identità in relazione ai nostri interessi. Ciò nondimeno, alla coscienza ordinaria appaiono come entità indipendenti e sostanziali.
L’analisi mādhyamika della vacuità e delle due verità spiega l’affermazione secondo cui le persone sono prive di un sé: non possediamo un nucleo sostanziale o un’identità intrinseca. La nostra identità dipende dai complessi psicofisici descritti dalla tradizione antica e dall’intera rete di pratiche sociali e linguistiche. La nostra esistenza è nominale e costruita, non un fatto fondamentale dell’universo. Tuttavia, a introspezione noi stessi e gli altri appaiono come soggetti autonomi e agenti indipendenti: tale apparenza è frutto di confusione primordiale ed è la radice della sofferenza.
In sintesi, comprendere il non‑sé (anātman) e la vacuità (śūnyatā) non è un gioco intellettuale, ma la base di una prassi compassionevole che riconosce l’interdipendenza di tutti i fenomeni. Solo dissolvendo l’illusione di un sé intrinseco possiamo aprirci a una karuṇā autentica, capace di abbracciare senza riserve la sofferenza altrui come nostra.
2.4 Dal Non-Sé all’Interconnessione Radicale
Capire (non solo intellettualmente, ma anche a un livello più profondo) che non esiste un sé isolato e indipendente apre la porta a una visione molto diversa di chi siamo. Se non siamo isole autonome, allora cosa siamo?
Siamo, in realtà, il risultato di un’interconnessione radicale e dinamica. La nostra esistenza è intrecciata in modo inseparabile con tutto il resto. Siamo influenzati da innumerevoli cause e condizioni – i nostri genitori, la società in cui viviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo, le persone che incontriamo, gli eventi passati. La nostra stessa identità, le nostre opinioni, i nostri tratti caratteriali, tutto è plasmato da questa vasta rete di relazioni.
Rinunciare all’illusione di un sé fisso ci permette di vedere questa interdipendenza in modo più chiaro. Ci rendiamo conto che non siamo separati dal mondo o dagli altri, ma siamo fatti dalle nostre interazioni con essi. La nostra “personhood” non è un nucleo preesistente, ma è costruita momento per momento da questo flusso di relazioni e cambiamenti.
2.5 L’Interconnessione Come Vacuità
Questa intuizione dell’interconnessione profonda trova il suo pieno sviluppo nel concetto di sunyata, spesso tradotto come “vacuità” o “vuoto”. È importante capire che “vacuità” non significa “nulla” o “inesistenza”. Significa piuttosto che le cose (noi stessi inclusi) sono “vuote” di esistenza intrinseca, indipendente e auto-fondata.
L’idea di sunyata, sviluppata in particolare dalla tradizione Mahayana, estende l’insight dell’anatman (l’assenza di un sé indipendente nella persona) a tutti i fenomeni. Nulla nel cosmo esiste per virtù propria, in modo isolato e indipendente. Ogni cosa esiste solo in relazione a qualcos’altro, in virtù di cause, condizioni, parti e dalla nostra stessa percezione o concettualizzazione.
La vacuità è quindi un modo per descrivere la natura relazionale e interdipendente della realtà. Dire che una cosa è “vuota” della sua esistenza intrinseca è lo stesso che dire che esiste solo in dipendenza da altro. L’interconnessione (o origine dipendente) è il modo in cui le cose esistono; la vacuità è la comprensione che questo modo di esistere implica l’assenza di un’essenza fissa e indipendente.
2.6 Il Percorso Verso la Liberazione
Comprendere l’anatman e la sunyata non è un esercizio puramente filosofico. È una trasformazione radicale della nostra visione del mondo e di noi stessi, con profonde implicazioni pratiche. Se capiamo che non esiste un “io” isolato da proteggere a tutti i costi, l’attaccamento, la paura e l’egoismo che derivano da questa illusione cominciano a svanire.
Se vediamo la nostra profonda interconnessione con tutti gli esseri e con l’ambiente, il desiderio di arrecare danno si riduce, e la compassione emerge naturalmente. Riconoscere la vacuità non porta al nichilismo, ma a un apprezzamento più profondo della realtà convenzionale e della bellezza delle cose come appaiono, sapendo che la loro esistenza non è rigida e immutabile, ma vibrante e interdipendente.
In sintesi: l’idea di interconnessione, centrale nella visione buddhista, ci spinge a ripensare la nostra nozione di sé. Questa revisione porta alla comprensione che non esiste un sé permanente e indipendente (anatman). Approfondire questa comprensione rivela che non solo il sé, ma tutti i fenomeni sono privi di esistenza intrinseca e auto-fondata, esistendo solo in relazione e interdipendenza. Questa è la comprensione della sunyata. È questo insight, questa visione della realtà interconnessa e “vuota” di essenze fisse, che libera dalla sofferenza radicata nell’illusione di un sé separato e immutabile.
2.7 Conclusioni
Nel corso di questo capitolo abbiamo osservato come la convinzione di possedere un «io» stabile e indipendente agisca da filo conduttore – spesso invisibile – di gran parte del nostro pensiero quotidiano. Tale convinzione, radicata in abitudini culturali che premiano l’autopromozione e l’autonarrazione, si dimostra però, alla luce dell’anātman e della śūnyatā, una costruzione provvisoria: utile sul piano convenzionale, ma priva di realtà intrinseca.
Dalla centralità dell’ego all’interdipendenza – Riconoscere che il sé non ha un nucleo permanente disinnesca l’idea di un confine netto fra “me” e “non‑me”. Questa intuizione non annulla la nostra individualità funzionale, bensì la colloca in una rete causale più ampia, facendo emergere la responsabilità e la cura reciproca come risposte naturali, non come imperativi imposti dall’esterno.
La vacuità come antidoto alla ruminazione egocentrica – Quando vediamo pensieri ed emozioni come eventi condizionati, invece che come “miei” in senso assoluto, il ciclo di ruminazione autoreferenziale – descritto in letteratura clinica come fattore di rischio per ansia e depressione – perde terreno. Al suo posto può sorgere un atteggiamento di curiosità aperta, capace di includere anche la sofferenza altrui.
Compassione come espressione della vacuità – La karuṇā non è un ideale morale estraneo all’analisi filosofica, ma la conseguenza pratica della comprensione della vacuità. Dissolto il mito di un sé autosussistente, l’altrui dolore non è più “altro” rispetto a noi; prendersene cura diventa spontaneo, quasi inevitabile.
L’eccesso di enfasi sull’ego, dunque, non è soltanto un errore concettuale: è una strategia inefficace per il benessere personale e collettivo. Trasformare la nostra prospettiva sul sé significa liberare energie emotive finora impiegate nell’autoconservazione per destinarle a relazioni più aperte, inclusive e solidali.
Obiettivo Prendere coscienza di quanto spazio occupi l’autoreferenzialità nel nostro flusso mentale spontaneo e verificare in prima persona l’eccessiva centralità dell’ego descritta nel capitolo.
Istruzioni
Prepara il contesto
- Scegli un momento in cui non hai compiti urgenti (es. in autobus, in fila, durante una passeggiata senza meta).
- Metti da parte cellulare, musica o letture: l’intento è lasciare la mente libera di vagare.
Osserva per 10 minuti
Senza cercare di controllare i pensieri, nota semplicemente dove si dirigono.
Ogni volta che ti accorgi del contenuto mentale, etichettalo in silenzio con una delle due categorie:
- “Io‑centrico” → riguarda direttamente te (ricordi personali, progetti, preoccupazioni sul tuo stato, giudizi su di te, ecc.).
- “Non‑io‑centrico” → riguarda eventi, persone o temi in cui tu non sei il protagonista (un paesaggio, una questione sociale, la gioia di qualcun altro, ecc.).
Stima la proporzione
- Al termine, valuta a grandi linee la percentuale di tempo trascorsa in ciascuna categoria (es. 70 % io‑centrico / 30 % non‑io‑centrico). Non serve essere precisi al secondo: l’importante è cogliere la tendenza generale.
Rifletti
- Confronta il risultato con ciò che hai appreso su anātman e śūnyatā.
- Chiediti: Questa predominanza dell’“io” favorisce o ostacola un senso di interconnessione e di compassione?
Perché è utile? L’esercizio rende evidente – con dati ricavati dall’osservazione diretta, non da una teoria astratta – quanto spesso la mente ruoti intorno al sé. Questa constatazione fornisce una base empirica per motivare la pratica: se l’autofocus è così pervasivo, imparare a riconoscerne la vacuità diventa un passo concreto verso la riduzione della sofferenza propria e altrui.