7 Abbandonare le illusioni
L’esperienza occupa un ruolo centrale e complesso nella filosofia buddhista. È centrale, innanzitutto, perché il buddhismo delle origini pone una forte enfasi sull’esperienza personale come fondamento per comprendere gli insegnamenti (Pignocchi, 2024). L’intento del Buddha non è mai stato quello di stabilire dottrine autoritarie o dogmi, poiché questi contraddirebbero l’essenza etica del buddhismo, che mira ad alleviare l’attaccamento alle illusioni, in particolare quelle concettuali che ci offrono simulacri di stabilità, durata e permanenza. Non c’è spazio, dunque, per dottrine dogmatiche, proprio perché percepirle come stabili ed eterne conduce inevitabilmente all’inganno. La filosofia buddhista, infatti, considera tutti i fenomeni come transitori e relativi. Riconoscere questa realtà permette di risolvere il problema fondamentale della vita: la sofferenza (duḥkha).
La sofferenza emerge quando assistiamo al decadere di ciò che pensavamo potesse durare per sempre. Neutralizzare questo modo doloroso di vivere il mondo è precisamente lo scopo dell’insegnamento buddhista:
“Le cose composte sono impermanenti, soggette a sorgere e cadere,
Dopo essere sorte, si distruggono; il loro passare è la vera beatitudine.”
(DN XVI.6.10, trad. Walshe (1995): 271)
Questo verso, che ancora oggi risuona durante le cerimonie funebri in Sri Lanka, esprime una verità universale e profonda. La sua essenza coglie il nucleo degli insegnamenti del Buddha, che possono essere sintetizzati nei seguenti concetti chiave: duḥkha, anātman, anitya, nirvāṇa e pratītya-samutpāda.
Il Buddha espone per la prima volta duḥkha, anitya e anātman – spesso chiamati le tre caratteristiche dell’esistenza – nel suo primo sermone dopo l’illuminazione (bodhi). Questi tre termini rappresentano rispettivamente l’insoddisfazione/sofferenza, l’impermanenza e l’assenza di un sé individuale stabile. Sebbene duḥkha venga comunemente inteso come sofferenza o dolore, il Buddha utilizza il termine in senso più ampio, per includere un’insoddisfazione intrinseca dell’esistenza. Questa è la prima nobile verità rivelata ai discepoli, che traccia il percorso di tutta la dottrina: ogni cosa nella vita è duḥkha. La possibilità della felicità non viene negata, ma la felicità stessa è inclusa in duḥkha, poiché tutto ciò che è impermanente – felicità compresa – è duḥkha.
Questa triade di segni dell’esistenza – duḥkha, anitya e anātman – è profondamente interrelata. Le cose sono anātman perché mancano di un’essenza o natura durevole, una condizione strettamente legata al loro essere anitya, o impermanenti: tutto ciò che è transitorio, per definizione, manca di un’essenza stabile. Questi tratti caratterizzano ogni aggregato (saṃskāra), ovvero ogni elemento esistente, che, essendo prodotto e condizionato, è quindi impermanente e privo di un’essenza stabile.
Nirvāṇa, che si contrappone a questo modo ordinario di vivere il mondo, rappresenta una via d’uscita dalla condizione ordinaria: libera dal condizionamento causale, dall’impermanenza e dalla sofferenza associata. Pratītya-samutpāda, o origine dipendente, spiega la genesi causale della sofferenza e fornisce una struttura fondamentale per comprendere sia il ciclo dell’esistenza sia il percorso per liberarsene. Questo processo è il cuore di tutta l’esistenza fenomenica. Nei sutta antichi del canone Pāli, il Buddha utilizza pratītya-samutpāda per dimostrare il problema della sofferenza e, risalendo alla catena causale, per rivelarne la soluzione. Questo approccio implica che, eliminando il combustibile, anche il fuoco si estinguerà.
La formulazione più esaustiva del concetto di origine dipendente si trova nel Paṭiccasamuppāda Sutta:
“Con l’ignoranza come condizione, sorgono le formazioni volitive;
con le formazioni volitive come condizione, la coscienza;
con la coscienza come condizione, il nome-e-forma;
[…] con la nascita come condizione, l’invecchiamento e la morte, il dolore, il lamento, il dispiacere e la disperazione sorgono.
Così ha origine questa massa di sofferenza.”
(SN XII.1, trad. Bodhi (2000): 533)
Questa catena rappresenta una dottrina chiave: vedere pratītya-samutpāda equivale a vedere il Dharma. Il Dharma, nel buddhismo, non è solo “l’insegnamento” ma anche la “verità”, intesa come la legge che regola l’intero universo. Questa legge non si limita a spiegare la genesi della sofferenza, ma sottolinea che postulare entità assolute porta all’illusione di un sé separato e immutabile.
Questa illusione alimenta l’attaccamento e il concetto di possesso, guidando le azioni karmiche e la rinascita. Superare questa illusione è cruciale, ed è qui che il pensiero non dualistico gioca un ruolo centrale. Andare oltre la percezione dualistica del sé e dell’altro significa comprendere che non esistono entità stabili, ma solo interdipendenze. La pratica della meditazione, guidata dal Dharma, ristruttura la nostra esperienza, portandoci a vivere la realtà senza proiezioni illusorie di stabilità o permanenza.
Questo processo non mira a rispondere a domande ontologiche, bensì a trasformare la relazione con l’esperienza, aprendo la strada alla saggezza (wisdom) e, di conseguenza, alla compassione autentica.