8  Abbandonare le illusioni

Nel Buddhismo, la verifica diretta dell’esperienza non è un mero esercizio descrittivo, bensì la chiave per disinnescare le costruzioni concettuali che radicano la sofferenza (duḥkha) e ostacolano la genesi di una compassione autentica (karuṇā). L’accento posto dal Buddha sulla sperimentazione personale — sintetizzato nell’invito a “non accettare nulla per autorità, ma testare ogni insegnamento nella propria mente e nella propria condotta” — costituisce un imperativo etico: solo liberandosi dalle illusioni di stabilità, permanenza e identità si apre uno spazio mentale capace di sostenere la cura incondizionata verso tutti gli esseri.

1. Le “tre caratteristiche” (tilakkhaṇa): spia del malinteso esistenziale

Nei primi discorsi il Buddha enuncia tre tratti inerenti a ogni fenomeno psico-fisico:

  1. duḥkha (insoddisfazione): ogni esperienza, anche piacevole, si connota per la tensione verso la sua persistenza o per il timore della sua dissoluzione.
  2. anitya (transitorietà): nulla permane immutabile; sia gli oggetti esterni sia i contenuti mentali fluiscono in un divenire incessante.
  3. anātman (assenza di sé): l’idea di un “io” permanente è un’astrazione derivata dall’agglutinazione momentanea dei cinque aggregati (skandha).

Questi tre aspetti formano un diagramma circolare:

  • la transitorietà espone al timore della perdita (anitya → duḥkha);
  • il timore della perdita implica il ricorso a un sé protettivo (duḥkha → anātman);
  • l a credenza in un sé perpetuo offusca la percezione del divenire (anātman → anitya).

Riconoscere sperimentalmente questa dinamica significa smantellare le strutture cognitive che impediscono di percepire l’altro come parte di un sistema interconnesso, prerequisito per l’emergere di una mahākaruṇā non discriminante.

2. Pratītyasamutpāda e śūnyatā: dalla catena causale alla vacuità

La dottrina della pratītyasamutpāda (“origine dipendente”) esplicita come nessun fenomeno si costituisca in modo isolato, ma sorga in virtù di condizioni multiple e interagenti. Il SN XII.1 presenta la celebre catena delle dodici nidāna, illustrando la genesi della sofferenza a partire dall’ignoranza:

Dall’ignoranza nascono le formazioni volitive…, dalla nascita l’invecchiamento e la morte, la sofferenza e la disperazione (Bodhi, 2000).

Nel Mahāyāna questa visione condizionata si coniuga con il concetto di vacuità (śūnyatā), che afferma: se ogni cosa dipende da qualcos’altro, nulla possiede un’essenza intrinseca (svabhāva). La comprensione dell’originazione dipendente conduce dunque a una dissoluzione ontologica dei confini tra sé e altro, favorendo l’esperienza di un’unica rete di vita – condizione fondamentale per una compassione priva di parzialità.

3. Nirvana e bodhicitta: liberazione personale e impegno altruistico

Nella tradizione Theraveda dell’arhat, il nirvana è stato spesso presentato come cessazione delle cause della sofferenza, ottenuta tramite l’estinzione dell’ignoranza. Nel Mahāyāna, però, il bodhisattva posticipa il proprio ingresso definitivo nel nirvana per rimanere nel saṃsāra a beneficio di tutti gli esseri:

  • il nirvana diviene così non un obiettivo individuale ma la manifestazione attiva del Dharma;
  • la bodhicitta, “mente del risveglio”, rappresenta l’intenzione altruistica generata dalla visione della vacuità, con cui la compassione si unisce indissolubilmente alla saggezza (prajñā).

Questo ribaltamento di prospettiva afferma che la liberazione non è un ritiro dal mondo, ma la capacità di abitare il mondo sofferente con un cuore immutato, generando azioni efficaci e disinteressate.

4. Meditazione sulla vacuità e rottura della dualità

Il mezzo tecnico privilegiato per toccare con mano le verità ontologiche sopra esposte è la pratica meditativa. In particolare:

  • la meditazione analitica sulla vacuità (come insegnato in Nāgārjuna e nei testi Prajñāpāramitā) consente di esperire la mancanza di entità separate, mettendo in crisi la percezione soggetto/oggetto;
  • la non-dualità risultante non è sinonimo di indifferenza, ma di una risposta empatica che non subordina il proprio equilibrio emotivo all’identificazione con la sofferenza altrui (evitando sia il distacco asettico sia il coinvolgimento fusionale).

Attraverso un ciclo ripetuto di riflessione e osservazione diretta, il praticante sviluppa la mahākaruṇā quale disposizione stabile: la compassione non nasce più come reazione, ma come condizione abituale della mente “svuotata” dall’illusione di un io separato.

5. Sintesi e implicazioni etiche

L’abbandono delle illusioni — su sé, fenomeni e relazioni causali — non è un panorama teorico, ma la premessa indispensabile per un’azione morale che vada oltre l’altruismo occasionale. Nel Mahāyāna:

  1. esperienza fenomenologica (tilakkhaṇa) →
  2. comprensione analitica (pratītyasamutpāda e śūnyatā) →
  3. trasformazione pratica (bodhicitta e meditazione non-duale) →
  4. manifestazione etica (karuṇā-pāramitā).

Solo in seguito a questa sequenza la compassione diventa sostanziale e sostenibile, capace di navigare tra le complesse interdipendenze del mondo senza cedere né al cinismo né all’iper-coinvolgimento.

In tal modo il bodhisattva incarna un modello etico di «cura senza confini», in cui la liberazione personale e la liberazione altrui si declinano come un unico, indivisibile impegno di salvezza collettiva.

Bibliografia

Bodhi, B. (2000). The Connected Discourses of the Buddha: A Translation of the Saṃyutta Nikāya (B. Bodhi, Trad.; p. 2080). Wisdom Publications.