8 Sati e la versione standard della meditazione
L’allenamento della mente è un processo graduale che richiede pazienza e persistenza. È fondamentale credere che sia possibile e vantaggioso cambiare se stessi e che questo cambiamento possa avvenire attraverso un processo di applicazione e coltivazione graduale. Secondo Harvey (2012), imparare la meditazione è simile a imparare a suonare uno strumento musicale: si tratta di imparare a “accordare” e “suonare” la mente, e la pratica regolare e paziente è il mezzo per raggiungere questo obiettivo.
Così come uno strumento a corde ben accordato ha corde né troppo lente né troppo tese, anche lo sforzo nella meditazione deve essere equilibrato. Qui l’idea classica del sentiero come “via di mezzo” è particolarmente rilevante. La pratica della meditazione è paragonabile anche al giardinaggio: non si possono forzare le piante a crescere, ma si possono fornire loro le condizioni giuste affinché si sviluppino naturalmente. Per la meditazione, le “condizioni giuste” sono l’applicazione appropriata della mente e della tecnica specifica utilizzata.
La maggior parte delle meditazioni si esegue seduti su un cuscino con le gambe incrociate, o in qualche variante di questa posizione. Una volta abituati a questa posizione, essa diventa stabile e può essere utilizzata come base solida per calmare la mente. Il corpo rimane immobile, con gli arti ripiegati, proprio come l’attenzione viene centrata. Gli effetti generali della meditazione includono un graduale aumento della calma e della consapevolezza. Una persona diventa più paziente, più capace di affrontare gli alti e bassi della vita, più lucida e più energica. Inoltre, diventa più aperta nelle relazioni con gli altri e più sicura di sé, capace di mantenere la propria posizione. Questi effetti possono essere ben consolidati dopo alcuni mesi di pratica (Harvey, 2012).
La descrizione precedente presenta la meditazione come una pratica fisica e mentale, delineandone le modalità e alcune delle sue possibili conseguenze. Tuttavia, la meditazione non si limita al fatto di sedersi in una certa postura per rilassarsi; essa coinvolge anche profonde connotazioni culturali. Questo aspetto, spesso trascurato, è stato evidenziato da McMahan (2023), che sostiene come la meditazione, spesso percepita come una pratica neutra e universale, sia in realtà profondamente radicata nei contesti culturali specifici dei suoi praticanti. La cultura che motiva la meditazione è cambiata nel corso del tempo, e questa evoluzione storica ha plasmato significativamente sia la pratica che l’interpretazione della meditazione. In origine, la meditazione aveva radici nei movimenti ascetici antichi ed era orientata a elevati scopi spirituali; questo è in netto contrasto con la percezione moderna della meditazione come una pratica passiva e non giudicante.
Per approfondire questa tematica, confronteremo due punti di vista sulla meditazione. Da un lato, esamineremo uno dei testi fondamentali sulla presenza mentale (sati, mindfulness, consapevolezza), ovvero il Satipaṭṭhāna Sutta. Dall’altro, analizzeremo la cosiddetta “versione standard” della meditazione proposta da Jon Kabat-Zinn, uno dei pionieri del movimento contemporaneo della mindfulness.
8.1 La Presenza Mentale
Il termine “sati” è comunemente tradotto come “presenza mentale” e può essere reso anche con “consapevolezza” o “mindfulness”. Questo concetto è centrale nelle pratiche buddhiste e si riferisce alla capacità di mantenere l’attenzione consapevole sugli oggetti di meditazione, le sensazioni, i pensieri e le azioni nel momento presente.
Nel Satipaṭṭhāna Sutta, il Buddha afferma che Sati (la presenza mentale) è l’unico modo per purificare la mente, superare sofferenze e dolori, percorrere la via e raggiungere il nirvana, la pace perfetta (Anālayo, 2015). Nel contesto del Satipaṭṭhāna Sutta, Sati è fondamentale per lo sviluppo della comprensione profonda e della visione chiara necessarie per il progresso spirituale e il raggiungimento del nirvana.
Forse l’aspetto più cruciale della pratica descritta nel Satipaṭṭhāna Sutta è rimanere nel momento presente.
Monaci, questa è la via diretta per la purificazione degli esseri, per superare dolore e lamento, per eliminare il dukkha e il disagio, per ottenere il metodo corretto, per la realizzazione del Nibbāna, tramite le quattro satipaṭṭhāna.
Il termine “Satipaṭṭhāna” può essere tradotto come “stabilire la presenza mentale” o “fondamenti della consapevolezza”. È spesso interpretato in due parti: “sati”, che significa “presenza mentale” o “consapevolezza”, e “paṭṭhāna”, che può significare “stabilire” o “fondare”. Pertanto, Satipaṭṭhāna si riferisce alla pratica di stabilire o fondare la consapevolezza su determinati oggetti di meditazione per sviluppare la comprensione profonda e la liberazione.
Quali sono dunque le quattro satipaṭṭhāna a cui fa riferimento il Sutta?
Il campo della prima satipaṭṭhāna, la contemplazione del corpo, va dalla consapevolezza del respiro, delle posture e delle attività, all’analisi del corpo nelle sue parti anatomiche ed elementi, fino alla meditazione su un cadavere in decomposizione.
Le due satipaṭṭhāna successive riguardano la contemplazione delle sensazioni e della mente.
La quarta satipaṭṭhāna enumera cinque tipi di dhamma per la contemplazione: gli ostacoli mentali, gli aggregati, le sfere sensoriali, i fattori dell’illuminazione e le quattro nobili verità.
Nel Sutta, una formula particolare segue ciascuna pratica di meditazione. Questo “ritornello” di satipaṭṭhāna completa ogni istruzione enfatizzando ripetutamente gli aspetti importanti della pratica.
In questo modo, in riferimento al corpo, egli dimora contemplando il corpo internamente, oppure contempla il corpo esternamente, o entrambi. Egli dimora contemplando la natura dell’insorgere nel corpo, o la natura del dissolversi nel corpo, o entrambi. La consapevolezza che ‘c’è un corpo’ è stabilita in lui nella misura necessaria per una conoscenza pura e una consapevolezza continua. E dimora indipendente, non attaccato a nulla nel mondo. È così che egli dimora contemplando il corpo.
Secondo questo “ritornello”, la contemplazione satipaṭṭhāna copre fenomeni interni ed esterni, e si occupa della loro nascita e dissoluzione. Il “ritornello” sottolinea anche che la consapevolezza dovrebbe essere stabilita solo per lo sviluppo di una conoscenza pura e per ottenere una continuità di consapevolezza. Inoltre, una corretta contemplazione satipaṭṭhāna avviene libera da ogni dipendenza o attaccamento.
La sequenza delle contemplazioni elencate nel Satipaṭṭhāna Sutta rivela un modello progressivo: la contemplazione del corpo si sviluppa dall’esperienza rudimentale delle posture e attività corporee alla contemplazione dell’anatomia del corpo. La sensibilità aumentata sviluppata in questo modo costituisce la base per la contemplazione delle sensazioni, spostando la consapevolezza dagli aspetti fisici immediatamente accessibili dell’esperienza alle sensazioni come oggetti di consapevolezza più raffinati e sottili.
La contemplazione delle sensazioni divide le sensazioni non solo secondo la loro qualità affettiva in piacevoli, spiacevoli e neutre, ma le distingue anche in base alla loro natura mondana o ultramondana. La parte finale della contemplazione delle sensazioni introduce quindi una distinzione etica delle sensazioni, che funge da trampolino di lancio per dirigere la consapevolezza verso la distinzione etica tra stati mentali sani e malsani, menzionata all’inizio della successiva satipaṭṭhāna, la contemplazione della mente.
La contemplazione della mente procede dalla presenza o assenza di quattro stati mentali malsani (desiderio, rabbia, delusione e distrazione) alla contemplazione della presenza o assenza di quattro stati mentali superiori. La preoccupazione per gli stati mentali superiori nella parte finale della contemplazione della mente si presta naturalmente a un’indagine dettagliata di quei fattori che ostacolano particolarmente livelli più profondi di concentrazione. Questi sono gli ostacoli, il primo oggetto di contemplazione dei dhamma.
Dopo aver coperto gli ostacoli alla pratica meditativa, la contemplazione dei dhamma progredisce verso due analisi dell’esperienza soggettiva: i cinque aggregati e le sei sfere sensoriali. Queste analisi sono seguite dai fattori dell’illuminazione, la prossima contemplazione dei dhamma.
Il culmine della pratica satipaṭṭhāna è raggiunto con la contemplazione delle quattro nobili verità, la cui piena comprensione coincide con la realizzazione.
Considerata in questo modo, la sequenza delle contemplazioni satipaṭṭhāna conduce progressivamente da livelli più grossolani a livelli più sottili. Questa progressione lineare ha una rilevanza pratica, poiché le contemplazioni del corpo si raccomandano come esercizio fondamentale per costruire una base di sati, mentre la contemplazione finale delle quattro nobili verità copre l’esperienza del Nibbāna (la terza nobili verità riguardante la cessazione del dukkha) e quindi corrisponde al culmine di qualsiasi attuazione riuscita di satipaṭṭhāna.
Si osservi quindi che, persino nel testo chiave della consapevolezza mentale, il Satipaṭṭhāna Sutta, una tale pratica non è “neutra”, ovvero una mera osservazione passiva di ciò che esiste. Al contrario, essa è direzionata verso una trasformazione: da una consapevolezza rudimentale a una più raffinata e elevata, intrisa di valori etici e strettamente connessa al Dharma.
È quindi necessario rendersi conto che la meditazione, così com’è praticata oggi in occidente, trae le sue radici da tradizioni antiche che possono essere tracciate fino al contesto storico del buddismo delle origini. Queste pratiche emersero all’interno di movimenti ascetici che sfidavano i valori e le istituzioni religiose dominanti dell’epoca. Tuttavia, contrariamente alle pratiche moderne, la meditazione nell’antico buddismo era spesso orientata a obiettivi spirituali elevati, come la trascendenza dal mondo nella beatitudine del nirvana.
Le pratiche meditative dell’epoca erano complesse, coinvolgevano pensiero concettuale, giudizio e un forte coinvolgimento emotivo, e avevano come scopo la trasformazione del praticante a vari livelli. Questo contrasta nettamente con la concezione moderna di meditazione come pratica passiva, non concettuale e non giudicante.
8.2 La versione Standard
Esaminiamo ora, per fare un confronto, le caratteristiche della versione corrente della mindfulness. Uno degli autori contemporanei che di più hanno contribuito a popolarizzare la meditazione è stato Jon Kabat-Zinn, uno dei pionieri del movimento contemporaneo della mindfulness. La pratica della mindfulness, così come formulata da Jon Kabat-Zinn è definita come
la consapevolezza che nasce dall’attenzione intenzionale, nel momento presente, e in modo non giudicante.
Oggi, la mindfulness è generalmente intesa come una consapevolezza non giudicante del momento presente, un approccio definito da McMahan (2023) come la “Versione Standard” della meditazione, che ha trovato ampia applicazione nella psicoterapia contemporanea. Queste pratiche, sviluppatesi in Nord America e Europa nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, hanno guadagnato popolarità e si sono diffuse in varie nicchie culturali. Sono arrivate al punto da essere oggi raccomandate anche dai medici di base per un’ampia gamma di benefici.
Tuttavia, esiste una tensione evidente nel discorso contemporaneo sulla meditazione: spesso si trascura il contesto culturale, confondendo le esperienze mediate culturalmente con il conseguimento di una visione universale. Secondo McMahan (2023), è invece essenziale riconoscere e comprendere l’influenza della cultura sulle pratiche meditative. McMahan (2023) solleva un punto critico: è improbabile che le pratiche meditative originariamente sviluppate da asceti celibi nell’Asia meridionale più di 2500 anni fa possano essere facilmente adattate per rispondere alle esigenze dei professionisti della classe media moderna, come la gestione dello stress lavorativo, il mantenimento della salute e la ricerca della serenità nella vita frenetica di oggi. Questa riflessione evidenzia la complessità e la sfida nell’adattare antiche pratiche meditative a contesti e bisogni radicalmente diversi.
Secondo numerose pubblicazioni della cultura popolare e scientifica, la risposta a questo paradosso è semplice: la meditazione funziona. Oggi la meditazione è spesso descritta come una sorta di tecnica scientifica, o un modo per “hackerare la mente”. Gli insegnanti di meditazione affermano che la Versione Standard sia la pratica meditativa fondamentale insegnata dal Buddha oltre 2,500 anni fa, e trasmessa pressoché immutata fino ai giorni nostri. Sebbene il “bagaglio culturale” intorno a queste pratiche sia cambiato, la loro essenza rimane intatta.
Tuttavia, secondo McMahan (2023), queste narrazioni sono fuorvianti. La maggior parte dell’ampia gamma di pratiche meditative emerse nelle tradizioni buddiste è stata filtrata dalla pratica contemporanea. La secolarizzazione della mindfulness e della meditazione non è semplicemente una rimozione del loro contesto religioso originario. Piuttosto, riflette un cambiamento più ampio nella comprensione e nell’applicazione di queste pratiche.
Il filtro della modernità seleziona pratiche che possono trovare un senso intuitivo e un posto nelle categorie abituali di pensiero, di sensibilità estetica e di realtà sociali, politiche e istituzionali. Questo processo di trasformazione di queste pratiche antiche, in realtà, è iniziato in Asia. Nei secoli XIX e XX, i buddisti in Giappone, Ceylon e Cina hanno iniziato a presentare il buddismo come un sistema razionale di filosofia, etica e una serie di tecniche per “indagare scientificamente” la mente e il mondo, attirando così l’attenzione degli studiosi occidentali, disincantati dalla “religione” e dalla “superstizione”.
La Versione Standard eredita elementi specifici dalle antiche descrizioni della meditazione, riformulandoli però in modi peculiari ai modi moderni di pensare e sentire, così come alle circostanze sociali e politiche. Molti aspetti delle pratiche meditative buddiste, però, non sono sopravvissuti a questi filtri della secolarizzazione.
Queste considerazioni ci fannno capire come la meditazione è tanto una pratica sociale e culturale quanto personale. Gli effetti fisiologici di base, come la riduzione della pressione sanguigna o l’aumento della serotonina, sono modulati dalle specifiche concezioni, aspettative e inclinazioni affettive disponibili in contesti culturali particolari. Inoltre, l’integrazione dell’esperienza meditativa nella vita quotidiana, il suo significato per le decisioni etiche e l’effetto durante la giornata, è profondamente influenzato dalla rete di idee e valori che circondano la pratica, forniti dalla cultura (vedremo un esempio dettagliato di questo discutendo il Vimalakīrti Sūtra).
Nel suo testo, McMahan (2023) mette quindi in discussione una certa concezione popolare della meditazione, quella che chiama l’interpretazione “oggettivista”, che vede la meditazione come una sorta di tecnologia per ottenere una visione trasparente e oggettiva dei contenuti interiori della mente.
Un tale punto di vista si manifesta in gran parte della letteratura scientifica sulla meditazione, che presume che la meditazione sia principalmente qualcosa che accade al cervello e al sistema nervoso centrale, essenzialmente uguali in tutti; quindi, studiare cosa succede al cervello dei meditatori, ad esempio in una scansione fMRI, ci può dire “come funziona la meditazione”. Ma come funziona la meditazione non riguarda solo il cervello - riguarda il lavoro che la meditazione svolge nei contesti sociali specifici in cui vivono i meditatori e il repertorio di possibilità, progetti, concetti e visioni morali in quei contesti.
L’ironia della sorte sta nel fatto che la secolarizzazione, contrariamente a ciò che afferma di essere, non è affatto laica. In altre parole, essa non costituisce un ambiente neutro per il discorso e la pratica razionale, libero dalle passioni soggettive e irrazionali legate alla religione. Al contrario, la secolarizzazione rappresenta una tradizione discorsiva caratterizzata da un insieme di valori, pratiche normative, atteggiamenti, proibizioni e persino da una sorta di metafisica. Gran parte di questa tradizione discorsiva conserva ancora profondamente l’apparato ideologico che affonda le sue radici nel cristianesimo protestante.
Pertanto, possiamo considerare la secolarizzazione, almeno nell’ambito occidentale, non come un “contenitore culturale neutro”, il che sarebbe un ossimoro, ma piuttosto come una forma di post-protestantesimo. Questo significa che la secolarizzazione rappresenta un modo di pensare che è fortemente influenzato dalla cultura e dalle idee che hanno avuto origine nel contesto del protestantesimo. In altre parole, anche se sembra che la società occidentale si sia allontanata dalla religione, molte delle sue idee, dei suoi valori e delle sue strutture concettuali continuano ad essere permeate da radici religiose, seppur in modo trasformato e adattato. Questa prospettiva mette in luce come la secolarizzazione non sia una semplice assenza di religione, ma piuttosto un complesso processo di trasformazione e reinterpretazione delle influenze religiose nel contesto della modernità occidentale.
La meditazione contemporanea è stata significativamente plasmata non solo dalla sua concezione in termini secolari - come scienza della mente, tecnica psicologica, mezzo per discernere “le leggi naturali” nella psiche - ma anche dalle leggi culturali che governano gli spazi secolari e religiosi. E questo ridimensionamento delle sue caratteristiche “originarie” è parte di ciò che ha permesso alle pratiche meditative buddiste e derivate dal buddismo di diffondersi rapidamente in tutto il mondo e di infiltrarsi in molte aree della vita sotto la bandiera della secolarizzazione.
8.3 Tra Tradizione e Secolarizzazione
Nel corso del ventesimo e ventunesimo secolo, molti tra i più eminenti buddisti asiatici hanno diffuso le pratiche basilari della mindfulness a persone al di fuori della tradizione buddista, promuovendole come universalmente benefiche, a prescindere dall’appartenenza o meno a una religione. Il XIV Dalai Lama (2011), Yongey Mingyur Rinpoche e Chögyam Trungpa (nel suo programma Shambhala) hanno tutti proposto programmi e approcci alla meditazione che essi stessi hanno definito “secolari”.
Forse l’apice di questo sforzo è stato il programma di Riduzione dello Stress basato sulla Mindfulness (Mindfulness-Based Stress Reduction, MBSR) di Jon Kabat-Zinn, che è stato deliberatamente privato del linguaggio religioso e dei riferimenti al buddismo, sebbene derivasse dalle tradizioni Zen e Vipassana.
Questo processo di “secolarizzazione” della mindfulness ha rappresentato un passo significativo verso la sua popolarità corrente. Kabat-Zinn ha svolto un ruolo cruciale in questo processo, rendendo la pratica della mindfulness accessibile e applicabile in un contesto non religioso, in particolare nel campo della salute mentale e del benessere. Il suo approccio ha permesso alla mindfulness di essere accolta in ambiti come la medicina occidentale, dove l’efficacia di una pratica viene misurata attraverso metodi scientifici piuttosto che attraverso principi religiosi o spirituali.
Tuttavia, c’è un aspetto interessante da considerare. Mentre gli scienziati possono affermare che la meditazione “funziona” per innumerevoli obiettivi mondani, molti praticanti utilizzano la meditazione per rassicurarsi che esista “qualcosa di più”. Questo suggerisce che, nonostante gli sforzi di secolarizzazione, la meditazione continua a svolgere un ruolo che va oltre il semplice raggiungimento di obiettivi terapeutici o di benessere fisico.
Le trasformazioni storiche a cui è stata soggetta la mediatazione che noi utilizziamo oggi fanno emergere una tensione fondamentale. Da un lato, ci sono gli aspetti costruttivi della meditazione, che implicano la coltivazione di atteggiamenti positivi, virtù, idee, emozioni e modi di pensare e di essere. In questa prospettiva, la meditazione è vista come una pratica neutra, priva di presupposti religiosi o spirituali, e quindi adattabile a diversi contesti mondani. Dall’altro lato, ci sono gli aspetti decostruttivi, che consistono nello smantellare tutto ciò che è stato costruito. Per molti praticanti, infatti, la meditazione va oltre il raggiungimento di obiettivi tangibili e rappresenta una pratica spirituale che apre le porte a dimensioni di realtà trascendenti. Questo aspetto della meditazione suggerisce che, nonostante gli sforzi della secolarizzazione, essa conserva ancora un ruolo che trascende la mera funzionalità.
Questa dicotomia tra la visione scientifica e quella spirituale della meditazione solleva questioni importanti. Da un lato, la meditazione viene promossa come una tecnica neutra, priva di presupposti religiosi o spirituali, che può essere utilizzata per una varietà di scopi pratici nel mondo moderno. Dall’altro, vi è il riconoscimento che la pratica della meditazione può ancora ospitare una ricerca di significato più profonda, e può essere concepita come un mezzo per connettersi con dimensioni spirituali.
Questa tensione tra l’aspetto pratico e quello spirituale della meditazione riflette un ampio spettro di interpretazioni e aspettative. Da un lato, ci sono coloro che cercano nella meditazione un mezzo per affrontare lo stress, migliorare la concentrazione o gestire meglio la salute fisica e mentale. Dall’altro, ci sono quelli che vedono nella meditazione un percorso verso la comprensione più profonda di sé e del mondo, o persino una pratica spirituale che apre la porta a una realtà trascendente.
In sintesi, la meditazione, nel suo passaggio dalla tradizione buddista alle pratiche contemporanee, si è arricchita di una pluralità di significati e applicazioni, diventando un fenomeno complesso e multidimensionale.
8.4 Il re-incanto secolare e l’autonomia situata
La pratica contemporanea della mindfulness e della meditazione è caratterizzata da una tensione tra il piano puramente funzionale della secolarizzazione (“la meditazione funziona”) e la destabilizzazione del discorso della secolarizzazione che può portare alcune persone che praticano la mindfulness e la mediatazione a riscoprire un senso di meraviglia e connessione con il mondo, nonostante la sua secolarizzazione – qualcosa che possiamo definire come un “re-incanto secolare” del mondo. Questo fenomeno rappresenta un cambiamento sostanziale rispetto all’approccio buddista classico, che spesso enfatizza la trascendenza del mondo materiale.
Nella tradizione buddista classica, i testi enfatizzano la natura effimera e insoddisfacente del corpo, delle realtà materiali, dei processi di nascita e morte, del mangiare, lavorare e dei piaceri sensuali. L’obiettivo proposto è quello di spezzare gli attaccamenti a questi aspetti della vita, sviluppando una sorta di avversione verso di essi per, infine, trascenderli completamente. Tuttavia, nella pratica meditativa contemporanea, si osserva una deviazione da questa visione. I praticanti moderni sono incoraggiati ad apprezzare la loro esistenza come esseri incarnati in un mondo materiale, utilizzando la meditazione per rafforzare questo apprezzamento.
Questo cambiamento può anche essere messo in relazione con l’evoluzione storica del pensiero buddista che, nel corso del tempo, ha sfumato la distinzione tra nirvana e saṃsāra, introducendo interpretazioni più mondane dell’illuminazione. Uno dei cambiamenti più significativi nel Buddhismo Mahayana, sviluppatosi intorno all’inizio dell’era comune, rispetto al Buddhismo Theravada, considerato più ortodosso e vicino agli insegnamenti originali del Buddha, riguarda proprio la concezione di Nirvana e Saṃsāra.
Nel Buddhismo Theravada, il Nirvana è visto come uno stato di liberazione dal ciclo di nascita, morte e rinascita (Saṃsāra). Questo ciclo è alimentato dal desiderio e dall’ignoranza, e l’obiettivo è di spezzarlo attraverso la realizzazione delle Quattro Nobili Verità e la pratica dell’Ottuplice Sentiero.
Tuttavia, nel Mahayana, la distinzione tra Nirvana e Saṃsāra inizia a sfumare. Secondo questa prospettiva, Nirvana non è una fuga o un trascendimento del mondo, ma una trasformazione della consapevolezza nell’ambito dello stesso Saṃsāra. In altre parole, l’illuminazione (o Nirvana) non significa abbandonare il mondo fisico, ma piuttosto vivere in esso con una profonda comprensione della sua vera natura. Vedremo che un concetto chiave nel Mahayana che supporta questa visione è la dottrina della vacuità (Śūnyatā), che sostiene che tutte le cose sono prive di una essenza intrinseca e permanente. Questa comprensione porta alla realizzazione che Nirvana e Saṃsāra non sono due realtà separate, ma piuttosto due modi di esperire la stessa realtà.
Una caratteristica rilevante della meditazione contemporanea è la sua intersezione con le concezioni moderne di libertà, sia nel senso di libertà di pensiero che di emancipazione da forme di oppressione. In questo contesto, la meditazione non è solo un esercizio spirituale o di auto-miglioramento, ma diventa un mezzo per formare individui consapevoli e in grado di cercare varie forme di libertà. Mentre tradizionalmente la meditazione mirava alla liberazione da sofferenze e illusioni interiori, nell’interpretazione contemporanea essa si rivolge anche verso la lotta contro le costrizioni socialmente condizionate, promuovendo un senso di autenticità e autodeterminazione personale.
Le discipline delle scienze umane e sociali enfatizzano il nostro essere esseri sociali, con un bisogno intrinseco di riconoscimento e autenticazione da parte dei nostri simili. In questo quadro, come sottolineato da McMahan (2023), le pratiche meditative offrono una forma di “autonomia situata”. Questo concetto implica il riconoscimento che, pur essendo profondamente immersi in un contesto di condizioni sociali, gli individui possono espandere la propria capacità di agire attraverso una maggiore consapevolezza delle possibilità di azione a loro disposizione.
Questa prospettiva si estende all’uso delle pratiche meditative come strumenti per promuovere la libertà e la giustizia sociopolitica. Un esempio è l’uso della meditazione per smantellare abitudini mentali razziste e consumistiche. Le interpretazioni contemporanee della meditazione vanno oltre la semplice introspezione, incoraggiando un impegno attivo sia etico che politico. Questo approccio alimenta la percezione di una porosità dei confini tra il sé e gli altri, ponendo l’accento su una responsabilità collettiva verso gli altri individui e il pianeta.
In sintesi, la meditazione contemporanea si configura come una pratica che non solo aspira al benessere individuale, ma che si impegna attivamente nella costruzione di un mondo più giusto e solidale, enfatizzando il legame indissolubile tra il benessere personale e quello collettivo.
8.5 Dalle Radici Antiche alla Contemporaneità
Integrando la riflessione sullo sviluppo contemporaneo della mindfulness e della meditazione con le origini antiche di queste pratiche, si apre una prospettiva ancora più ampia. Immaginiamo un individuo della prima comunità buddista, per il quale la vasta varietà di pratiche di meditazione e mindfulness era originariamente sviluppata. Egli è un asceta celibatario dell’età del ferro, che vive in un eremo nella foresta con pochi altri rinuncianti. Trascorre molte ore ogni giorno in vari esercizi di meditazione, perfezionandone molti, anche se non raggiunge gli effetti straordinari che sono stati promessi, come la capacità di volare o leggere i pensieri altrui. Questo rinunciante ha abbandonato la famiglia, i beni e la sua posizione sociale nella speranza di addestrare la sua mente a entrare in uno stato trascendente, transpersonale e senza tempo, al di là del ciclo infinito di nascita, rinascita e sofferenza – il nirvana. Se non può raggiungere un obiettivo così elevato in questa vita, spera almeno di evitare la rinascita come un animale, uno spirito affamato o un residente di un inferno insopportabilmente caldo o freddo situato sotto terra.
Questo asceta è tenuto a esercitare una costante vigilanza contro gli impulsi sessuali, la pigrizia, l’irrequietezza e i dubbi riguardo alla sua capacità di raggiungere l’illuminazione. Per lui, la vita sessuale, il desiderio di avere figli, il piacere di mangiare cibi deliziosi e il godimento del comfort fisico rappresentano mere tentazioni alle quali deve resistere. Allo stesso tempo, è chiamato a mantenere relazioni cordiali con i suoi compagni monaci, con i laici ai quali insegna e da cui riceve elemosine, nonché con i potenti mecenati e governanti della regione in cui vive. Sebbene pratichi un’alimentazione consapevole, gli è precluso manifestare preferenze culinarie, non gli è permesso trovare piacere nel cibo, né consumarne più del necessario per garantire il funzionamento del proprio organismo.
Confrontando le descrizioni precedenti con la pratica contemporanea della mindfulness e della meditazione, emergono evidenti disparità. Da un lato, potremmo essere tentati di scartare le pratiche moderne come versioni banali, decontestualizzate e poco informate del “vero” buddismo. Dall’altro, potremmo celebrare l’estrazione “dell’essenza” del buddismo da parte delle persone moderne e razionali dalle tradizioni superstiziose, metafisiche e dall’ascetismo eccessivamente duro dei suoi inizi.
Un’altra prospettiva possibile ci invita invece a considerare il funzionamento della meditazione in contesti culturali, religiosi e storici diversi. L’intento non è quello di pronunciarsi sull’autenticità di uno specifico modo di meditare o di sminuire la pratica del meditatore moderno, etichettandola come superficiale o in contrasto con lo spirito del buddismo “originale”. Piuttosto, si rivela utile comprendere il ruolo che la meditazione gioca nella vita di ogni praticante, osservare come il contesto influenzi significato, importanza e finalità di queste pratiche, esplorare come esse si inseriscano in varie visioni del mondo, indagare in che modo promuovano competenze e approcci alla vita diversi, seppur sovrapponibili, e cogliere la straordinaria e improbabile traiettoria che queste pratiche hanno seguito dal mondo antico a quello moderno.
In sintesi, mindfulness e meditazione, pur affondando le loro radici in contesti e insegnamenti millenari, si sono evolute e adattate a nuove realtà, conservando la loro pertinenza e funzionalità in un mondo in costante mutamento. Comprendere questo percorso storico e culturale arricchisce la nostra percezione della pratica meditativa, permettendoci di riconoscerne tanto le origini quanto l’evoluzione fino ai nostri giorni.
8.6 Un Viaggio Tra Contesti e Culture Diverse
La meditazione e la mindfulness, come discusso in precedenza, variano notevolmente in base al contesto culturale, religioso e storico in cui vengono praticate. Prendiamo in considerazione il modo in cui praticano la meditazione una donna americana di classe media, un laico moderno dello Sri Lanka e un monaco indiano antico. Sebbene possano adottare la stessa tecnica, i loro effetti, comprensioni e motivazioni possono essere radicalmente diversi. Questo è dovuto al fatto che la meditazione non può essere completamente compresa senza fare riferimento al contesto culturale di riferimento.
Kabat-Zinn (1994, p. 6) suggerisce che il punto più importante del buddismo sia
essere sé stessi e non cercare di diventare qualcosa che non si è già.
Secondo questo punto di vista, il buddismo riguarderebbe essenzialmente il fatto di essere in contatto con la propria natura più profonda e la capacità di lasciare che fluisca liberamente. Tuttavia, McMahan (2023) ci fa notare che la caratterizzazione della meditazione come priva di obiettivi di auto-miglioramento non si applica agli strati storici più antichi della meditazione buddista, che invece avevano espliciti obiettivi di trasformazione personale, sia lontani (la trascendenza totale del mondo nella beatitudine del nirvana) sia più prossimi (favorire determinati modi di essere nel mondo).
Uno dei principali termini in sanscrito che viene tradotto come “meditazione” è “bhāvanā”. Questa parola sanscrita ha una profonda connessione con il concetto di coltivazione o creazione. Quando si parla di “bhāvanā” in meditazione, si fa riferimento al processo di coltivazione o sviluppo della mente attraverso pratiche meditative. Questo termine sottolinea l’idea che la meditazione non è semplicemente una pratica passiva, ma piuttosto un atto attivo di coltivazione interiore, dove si lavora diligentemente per sviluppare e nutrire determinate qualità mentali o spirituali. In breve, “bhāvanā” richiama l’idea che la meditazione è un’azione mirata verso la crescita e lo sviluppo della mente e dell’essere interiore.
Lontano dall’essere una pratica passiva, non concettuale e non giudicante, molte descrizioni canoniche della meditazione richiedono il pensiero concettuale, il giudizio, l’immaginazione e un forte coinvolgimento emotivo. Queste pratiche antiche coinvolgono tassonomie sofisticate, ideali e prototipi di persone realizzate da contemplare e cui aspirare. Se le pratiche meditative sono spesso orientate a un obiettivo, si devono avere concetti, modelli e immaginazioni di ciò che è l’obiettivo: cosa sia il nirvana, come si senta, come si comporti e come veda il mondo una persona risvegliata.
Le pratiche meditative antiche erano dunque orientate al futuro con l’obiettivo esplicito di trasformare il praticante in un certo tipo di persona. Gli obiettivi, le immagini e gli ideali del meditatore formavano dunque una parte cruciale del contesto immediato delle pratiche meditative.
Dunque, la meditazione, sia nel contesto contemporaneo che in quello antico, è inserita in immaginari sociali e funziona come parte di una rete più ampia di pratiche, idee, significati, valori e concezioni morali. Nel senso più ampio, la meditazione è autocoltivazione all’interno di un contesto sociale e culturale specifico.
McMahan (2023) sottolinea che le pratiche meditative nei contesti secolari - come la terapia psicologica, la gestione del dolore, il sollievo dallo stress, il mamagement della salute mentale, fisica e della “vita spirituale” così come attualmente concepita - sono uniche al nostro tempo. L’obiettivo di “essere in contatto con la propria natura più profonda e la capacità di lasciare che fluisca liberamente” è un punto di vista strettamente contemporaneo, basato su una specifica visione del mondo, e del tutto distinto dagli obiettivi del buddismo antico.
È dunque importante tenere a mente che le pratiche contemplative (e qualsiasi altra pratica sociale o religiosa) assumono nuovi significati e scopi a seconda del loro contesto culturale. Le pratiche stesse cambiano in relazione ai diversi scopi a cui sono destinate. È importante ricordare che le pratiche meditative si sono evolute e sviluppate per oltre due millenni, adattandosi a molti luoghi e tempi diversi in Asia, raccogliendo elementi delle culture della Cina, del Tibet, della Thailandia, del Giappone e di altri contesti culturali prima di arrivare in Europa e America. Sebbene gli odierni adattamenti della meditazione buddista siano unici, è la norma piuttosto che l’eccezione che tali pratiche siano costantemente soggette a rinnovamento e revisione in tempi e luoghi diversi.
8.7 Contesto Storico del Buddismo Antico
Il contesto storico del buddismo antico è dunque un elemento cruciale per comprendere l’origine e lo sviluppo delle pratiche meditative buddiste. Storicamente, sappiamo che queste pratiche emersero all’interno di un contesto più ampio di vari movimenti ascetici chiamati śramaṇas, o rinuncianti, che si erano allontanati dalla società dominante del tempo e nutrivano un forte scetticismo nei confronti dei suoi obiettivi, valori e istituzioni.
Questi movimenti ascetici si svilupparono in un’India in rapida evoluzione, caratterizzata da instabilità sociale, cambiamenti economici, urbanizzazione e la crescita di regni più grandi che assorbivano quelli più piccoli. Emerse anche un sistema monetario e un commercio organizzato. Spesso, nuovi movimenti religiosi sorgono in periodi di cambiamento sociale, e gli śramaṇas non furono un’eccezione. Questi asceti consideravano la vita nel mondo come insoddisfacente e intrisa di sofferenza, vedendola come una condizione effimera e incerta.
Alcuni di questi movimenti ascetici ritenevano che l’unico modo per porre fine alle sofferenze del mondo fosse smettere del tutto l’azione (karma). Consideravano l’azione come un legame al mondo e fermare il suo impeto avrebbe portato alla condizione di una felicità permanente al di là del corpo, dei sensi e della coscienza ordinaria. Alcuni praticanti associati al Gautama Buddha erano noti per aver adottato pratiche estreme di mortificazione del corpo e auto-tortura, il che riflette alcune delle metodologie utilizzate per liberare la mente dal mondo fisico.
Le dottrine buddiste emersero come un’alternativa all’interno di questo contesto ascetico. Sebbene il Dharma buddista fosse chiamato la “via di mezzo” e cercava di moderare gli estremi dell’ascetismo, si collocava ancora all’interno di questa visione più ampia. L’obiettivo comune di queste dottrine, almeno nelle fasi iniziali, era raggiungere uno stato “non nato, non morente” al di là della materialità e della temporalità, al di là di quella che vedevano come la sofferenza irrimediabile del mondo.
Tuttavia, nonostante questi ideali ascetici e l’obiettivo di trascendenza, le comunità buddiste antiche vivevano ancora nel mondo. Avevano relazioni con re, sacerdoti brahmani e altri appartenenti a diverse fasce sociali. Avevano sostenitori laici, sistemi di patronato e varie relazioni reciproche con i laici. Nonostante le raccomandazioni di una vita isolata di contemplazione nella foresta, molti monaci trascorrevano molto tempo nelle città, specialmente dopo che la vita nei monasteri divenne la norma. Alcuni monasteri divennero ricchi e potenti dal punto di vista politico. Discuteremo in dettaglio il Vimalakīrti Sūtra per capire meglio come ciò veniva fatto, almeno in questa trattazione ideale.
Il ruolo della meditazione all’interno delle comunità monastiche variava ed è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi. Alcune prove suggeriscono che nell’India antica e medievale la meditazione non fosse molto apprezzata in almeno alcuni contesti monastici, e i monaci specializzati in meditazione erano in minoranza, spesso meno stimati di coloro che si dedicavano allo studio.
È importante notare che, a differenza del contesto contemporaneo, nella letteratura buddista antica, la meditazione raramente veniva raccomandata per affrontare questioni mondane. Le istruzioni fornite nelle scritture erano spesso relative a questioni molto terrene, come il comportamento dei re e come i commercianti dovessero gestire i loro soldi. Nonostante tutte queste specifiche raccomandazioni pratiche, non si faceva spesso riferimento alla meditazione come un mezzo per vivere meglio nel mondo.
Nell’antico buddismo, le tecniche meditative assumevano forme diverse e comprendevano sia la concentrazione su oggetti specifici che la contemplazione di questioni filosofiche e concettuali più ampie. Per esempio, alcune di queste pratiche avevano l’obiettivo di tranquillizzare la mente e distogliere l’attenzione dalla percezione sensoriale e dai pensieri ordinari. Al contrario, altre erano più coinvolgenti emotivamente e mentalmente, focalizzandosi sulle modalità di vita che il praticante doveva adottare.
In particolare, le fasi dell’assorbimento contemplativo (jhānas) rappresentavano un esempio di pratiche volte all’assenza di pensieri e desideri, e all’esperienza di stati di coscienza al di là delle percezioni sensoriali ordinarie.
Come abbiamo già detto, un termine chiave in questo contesto è “bhāvanā,” che significa “coltivazione contemplativa.” Questo concetto si riferisce allo sviluppo di stati mentali, disposizioni etiche, atteggiamenti, abitudini e giudizi che riguardavano principalmente come i monaci e le monache dovevano vivere nel mondo e incarnare gli insegnamenti del Dharma. Quindi, anche se queste pratiche avevano come obiettivo finale l’uscita dal mondo, avevano un profondo effetto sulla strutturazione della vita all’interno di esso.
Va dunque sottolineato che le pratiche di meditazione nell’antico buddismo non erano prive di obiettivi, ma erano chiaramente orientate verso la trasformazione del praticante a livello etico, comportamentale e concettuale. Nonostante l’obiettivo finale di raggiungere l’illuminazione e superare il ciclo delle rinascite, queste pratiche avevano obiettivi più immediati che coinvolgevano una radicale riconfigurazione delle attitudini, dell’orientamento etico, del comportamento e del modo di vedere le cose del praticante.
Inoltre, il concetto di “vipassanā,” o “visione penetrante,” nell’antico buddismo aveva lo scopo di far vedere le cose come realmente sono, ma questo non significava semplicemente una percezione oggettiva e priva di condizionamenti culturali. Invece, si trattava di costruire un sistema di concetti alternativo, formare disposizioni alternative, creare basi di valutazione diverse e ricondizionare abitudini mentali e fisiche.
In breve, il contesto storico del buddismo antico e le sue pratiche meditative erano complessi e culturalmente radicati. Queste pratiche avevano lo scopo di trasformare i praticanti a livello etico, comportamentale e concettuale, oltre a prepararli per l’obiettivo finale di superare la sofferenza e raggiungere l’illuminazione.
8.8 Riflessioni Conclusive
In conclusione, è chiarto che all’interno del buddismo, le pratiche contemplative rivestono un ruolo di estrema rilevanza sin dai primi tempi della tradizione. Esse sono considerate fondamentali per raggiungere la liberazione dal ciclo delle rinascite (saṃsāra). Un pensatore buddhista contemporaneo si esprime così Thrangu (1986):
Durante i miei viaggi in Europa e Nord America, ho ascoltato numerose persone parlare dei loro problemi personali: disturbi mentali, problemi fisici e infelicità riguardo ai loro beni o al lavoro. La risposta a molti di questi problemi è sempre la stessa: trovare pace e tranquillità nella propria mente e sviluppare comprensione e saggezza. Quindi, la felicità comune in questo mondo è legata alla pratica di śamatha e vipaśyanā.
Il concetto fondamentale alla base delle pratiche buddhiste è che la mente sia “plasmabile”, cioè che sia suscettibile di trasformazione attraverso l’esercizio e la coltivazione. Pertanto, la meditazione è spesso definita come “coltivazione della mente”. Il principale obiettivo della meditazione è proprio quello di cambiare ciò su cui focalizziamo costantemente la nostra attenzione. Tuttavia, la meditazione buddista non si limita a essere una semplice tecnica di “rilassamento mentale”, ma costituisce un processo di sviluppo spirituale che segue i principi etici e morali del sentiero buddista, inclusi la retta parola, la retta azione e la retta vita.
Nel buddhismo antico, la meditazione è vista come uno sforzo mirato a coltivare stati mentali specifici che favoriscono l’illuminazione. La pratica meditativa consente di modellare la mente sia attraverso l’attenzione controllata dal meditatore, sia attraverso filtri culturali più ampi che influenzano la costruzione del sé.
Prima del suo risveglio, Gautama Buddha superò molteplici ostacoli, raggiungendo una comprensione profonda grazie alla meditazione. I primi testi buddisti sottolineano il ruolo centrale che la meditazione ha giocato nel suo cammino verso l’illuminazione, evidenziando la lotta del bodhisattva Gautama contro pensieri non salutari, nonché il suo sviluppo della tranquillità e la crescita della comprensione. Questi elementi del suo percorso mettono in evidenza l’importanza cruciale della meditazione nella sua ricerca spirituale. Nella tradizione buddista antica, quindi, la meditazione è vista come uno strumento potente per rimodellare la vita mentale e trasformare l’esperienza quotidiana. Essa consente al praticante di sviluppare diverse qualità personali, di integrare gli insegnamenti buddisti nella vita di tutti i giorni e di favorire uno stato mentale propizio all’avanzamento verso l’illuminazione.