3 Incontri tra Culture
3.1 Convergenze e Divergenze Filosofiche
Iniziamo ora un approfondimento critico del concetto di karuṇā attraverso un confronto tra la visione buddhista Mahāyāna e le interpretazioni contemporanee della compassione nel contesto occidentale e scientifico. Questo dialogo interculturale permette di evidenziare non solo differenze terminologiche ed etimologiche, ma soprattutto divergenze fondamentali nella comprensione della compassione come pratica trasformativa rispetto a una sua riduzione a mero stato emotivo.
La compassione (karuṇā) occupa un ruolo centrale sia nelle tradizioni contemplative dell’Asia orientale che nelle ricerche neuroscientifiche e psicologiche moderne. Tuttavia, come illustrato nel capitolo precedente, le sue radici filosofiche, i meccanismi operativi e gli obiettivi ultimi differiscono profondamente. In questo capitolo esploreremo due prospettive principali:
- L’approccio neuroscientifico e secolare, che interpreta la compassione come un insieme di processi cognitivi, emotivi e fisiologici.
- La prospettiva buddhista Mahāyāna, dove la karuṇā è inseparabile dalla saggezza (prajñā) e si configura come un impegno etico attivo verso la liberazione dalla sofferenza (duḥkha).
Per strutturare questa analisi, adotteremo un approccio interdisciplinare, integrando l’etimologia, le pratiche meditative e il modello teorico proposto da Shaun Gallagher nella sua Pattern Theory of Compassion (Gallagher et al., 2024). Questo framework ci permetterà di confrontare le implicazioni epistemologiche e pratiche delle due visioni.
3.2 Etimologia e Fondamenti Culturali: Da Compassio a Karuṇā
L’origine linguistica dei termini rivela già una divergenza fondamentale nella concezione della compassione.
Nella tradizione occidentale, il termine “compassione” deriva dal latino compassio (letteralmente “soffrire insieme”, da cum = insieme e pati = soffrire). Questa radice sottolinea una condivisione passiva del dolore, spesso associata all’etica cristiana, che enfatizza la solidarietà con la sofferenza umana come espressione di amore fraterno. Tuttavia, questa prospettiva rischia di confondere la compassione con l’angoscia empatica (empathic distress), un coinvolgimento emotivo che può generare esaurimento o paralisi d’azione.
Nel Buddhismo Mahāyāna, il termine sanscrito karuṇā va oltre la mera identificazione con la sofferenza: implica un impegno attivo per alleviarla. Come notato da Garfield, karuṇā potrebbe essere più precisamente tradotta come “cura compassionevole” o “azione alleviante” (Garfield, 2022). Crucialmente, questa qualità è sempre accompagnata dalla prajñā (saggezza), che garantisce un’azione non condizionata dall’attaccamento o dal desiderio di controllo.
Un’altra distinzione chiave riguarda il ruolo della compassione nel percorso spirituale. Nel Mahāyāna, karuṇā è la motivazione centrale del bodhisattva, l’ideale spirituale che rinuncia al proprio nirvana per aiutare tutti gli esseri senzienti a liberarsi dal ciclo delle rinascite (saṃsāra). In questo contesto, la compassione non è solo un sentimento, ma una forza trasformativa che dissolve i confini tra sé e altro, tra soggetto e oggetto.
Queste differenze suggeriscono un contrasto radicale: mentre l’Occidente tende a enfatizzare l’identificazione emotiva con il dolore altrui, il Buddhismo Mahāyāna vede la compassione come un processo di liberazione reciproca, dove l’azione compassionevole è inseparabile dalla dissoluzione dell’illusione del sé (anātman).
3.3 La Pattern Theory of Compassion: Un Ponte tra Neuroscienze e Pratica Contemplativa
Recentemente, le neuroscienze cognitive hanno proposto modelli per definire la compassione in termini di processi dinamici e interconnessi. Tra questi, la Pattern Theory of Compassion di Shaun Gallagher (Gallagher et al., 2024) offre una prospettiva utile per confrontarla con la visione buddhista. Secondo Gallagher, la compassione non è riducibile a una singola emozione, ma a un pattern complesso che integra quattro componenti principali:
- Processi fisiologici: Includono l’attivazione del sistema nervoso parasimpatico, il rilascio di ossitocina e altre sostanze neurochimiche associate alla connessione sociale.
- Motivazione all’azione: A differenza dell’empatia passiva, la compassione implica un’urgenza motivazionale per alleviare la sofferenza.
- Regolazione emotiva: Necessaria per evitare il rischio di sovraccarico empatico e mantenere un equilibrio affettivo.
- Cognizione e valutazione: Richiede la consapevolezza della situazione altrui e la capacità di valutare le risorse disponibili per intervenire efficacemente.
Questo modello, pur nascendo da un contesto scientifico, presenta diverse analogie con la visione Mahāyāna. La karuṇā, infatti, richiede:
- una presenza corporea consapevole (analoga alla regolazione fisiologica);
- un’azione intenzionale guidata da motivazione altruistica;
- la dissoluzione dell’ego-centrismo (parallela alla regolazione emotiva e alla non-identificazione con il dolore altrui);
- la saggezza (prajñā) come base per una valutazione etica e contestuale dell’intervento.
Tuttavia, una differenza critica persiste: mentre la Pattern Theory si concentra su meccanismi individuali e neurobiologici, la karuṇā buddhista insiste sull’interdipendenza universale (pratītyasamutpāda), dove la compassione si estende a tutti gli esseri senza discriminazione.
3.4 Compassione nel Buddhismo Mahāyāna: Un Percorso Trasformativo
Nel Buddhismo Mahāyāna, karuṇā non è solo un’emozione o una virtù morale, ma un principio ontologico e soteriologico che permea l’intero percorso spirituale. Essa si manifesta come il cuore dell’ideale del bodhisattva, colui che, pur avendo raggiunto la soglia dell’illuminazione, sceglie di rimanere nel ciclo delle rinascite (saṃsāra) per alleviare la sofferenza di tutti gli esseri senzienti. Questo impegno non è frutto di altruismo astratto, ma nasce dalla comprensione profonda della vacuità (śūnyatā) e dell’interdipendenza universale (pratītyasamutpāda): solo dissolvendo l’illusione dell’io separato (anātman), la compassione può espandersi senza limiti.
A differenza delle concezioni occidentali tradizionali, che spesso riducono la compassione a una risposta emotiva alla sofferenza altrui, il Mahāyāna la vede come un processo di trasformazione radicale del sé, dove la saggezza (prajñā) agisce da guida. La prajñā non è mera conoscenza intellettuale, ma una visione diretta della natura illusoria delle dualità (sé/altro, soggetto/oggetto), che permette di agire con compassione senza cadere nell’attaccamento o nell’angoscia empatica. Come scrive Garfield, karuṇā potrebbe essere tradotta come “cura compassionevole” perché implica un’intenzionalità attiva e non una semplice reazione passiva (Garfield, 2022).
Questa visione si distingue nettamente dalla Pattern Theory of Compassion di Gallagher, che analizza la compassione come un insieme di processi fisiologici, cognitivi e motivazionali misurabili (Gallagher et al., 2024). Mentre il modello neuroscientifico enfatizza la regolazione emotiva e l’efficacia dell’azione prosociale, il Mahāyāna insiste sull’importanza della liberazione dal sé come premessa per un’azione veramente compassionevole. Per il Buddhismo, la compassione senza prajñā è come un uccello senza ali: può riconoscere la sofferenza, ma non può elevarsi al di sopra di essa.
3.5 Differenze Fondamentali: Saggezza vs. Meccanismi Neuronali
Una divergenza cruciale tra Mahāyāna e neuroscienze moderne riguarda il ruolo della saggezza. Nel pensiero buddhista, la karuṇā è inseparabile dalla comprensione della realtà ultima (paramārtha-satya), che nega l’esistenza intrinseca di ogni fenomeno. Questa visione implica che la compassione efficace richiede la dissoluzione delle illusioni cognitive che alimentano l’ego-centrismo. Senza questa base, ogni atto compassionevole rischia di essere contaminato da attaccamento, desiderio di riconoscimento o identificazione con la sofferenza altrui – dinamiche che generano ulteriore sofferenza.
Al contrario, la Pattern Theory of Compassion si concentra su meccanismi individuali come l’attivazione del sistema parasimpatico, il rilascio di ossitocina e la motivazione all’azione, senza collegarli a una visione metafisica della realtà. Anche se Gallagher enfatizza la necessità di regolazione emotiva per evitare l’angoscia empatica, il modello manca di una riflessione sulla natura dell’io e sulla sua dissoluzione, aspetti centrali nel Mahāyāna. Per il Buddhismo, la regolazione emotiva non è solo una strategia di autocontrollo, ma il risultato di un’esperienza diretta della vacuità: quando non esiste un “sé” separato, non può esserci nemmeno un “altro” da cui distinguersi.
Un’altra differenza riguarda la dimensione soteriologica. Nel Mahāyāna, la compassione è parte di un percorso che mira alla liberazione (mokṣa) dal ciclo delle rinascite, attraverso pratiche meditative come la mettā bhāvanā (coltivazione dell’amore benevolo) e il lojong tibetano (addestramento mentale). Queste pratiche non mirano solo a migliorare il benessere psicologico, ma a trasformare radicalmente la percezione dell’esistenza. La karuṇā diventa così una via per dissolvere i confini tra sé e mondo, tra sofferente e compassionevole. Nella prospettiva secolare, invece, la compassione è spesso ridotta a una “competenza emotiva” da sviluppare per migliorare la resilienza individuale o le relazioni sociali.
3.6 Convergenze e Sinergie: Pratiche Collettive e Regolazione Emotiva
Nonostante queste divergenze, vi sono punti di incontro significativi. Entrambe le prospettive riconoscono che la compassione richiede allenamento e coltivazione: nel Mahāyāna attraverso la meditazione e il voto del bodhicitta (la determinazione a raggiungere l’illuminazione per il bene di tutti), nelle neuroscienze attraverso protocolli come la Compassion Cultivation Training (CCT) o la Mindful Self-Compassion (MSC). Studi di neuroimmagine hanno dimostrato che la pratica regolare di meditazioni compassionevoli modifica l’attivazione di aree cerebrali associate alla pro-socialità, come il giro temporale superiore e la corteccia prefrontale mediale, confermando l’efficacia di questi metodi sia nel contesto spirituale che clinico.
Un’altra convergenza riguarda la regolazione emotiva. Il Mahāyāna insegna a osservare la sofferenza senza identificarsi con essa, una pratica simile alla “decentering” (distanziamento cognitivo) promossa nelle terapie basate sulla mindfulness. Tuttavia, mentre il contesto occidentale lo vede come strumento per ridurre lo stress, il Buddhismo lo considera un passo verso la dissoluzione dell’illusione dell’io. Entrambi i modelli, però, concordano sul fatto che una compassione efficace richiede l’equilibrio tra coinvolgimento empatico e distacco contemplativo.
3.7 I Tre Livelli della Compassione nel Mahāyāna: Dal Personale all’Universale
Nel Mahāyāna, la karuṇā si articola in tre livelli progressivi, che riflettono una crescita spirituale e ontologica:
Compassione per gli Esseri Senzienti (sattvālambana karuṇā)
Si manifesta come risposta empatica alla sofferenza specifica di individui o gruppi. È il livello più accessibile, ma ancora condizionato dall’illusione di separazione tra sé e altro.Compassione per i Fenomeni (dharmālambana karuṇā)
Riconosce che la sofferenza è intrinseca alla natura impermanente (anityatā) e condizionata (pratītyasamutpāda) dell’esistenza. Qui la compassione si estende a tutti i fenomeni, non solo agli esseri viventi, e si accompagna a una visione profonda della vacuità.Compassione Senza Oggetto (anālambana karuṇā)
La forma più alta, detta anche mahākaruṇā (“grande compassione”), trascende ogni dualità e si libera dal bisogno di un oggetto specifico. È l’espressione diretta della saggezza illuminata, dove l’azione compassionevole nasce spontaneamente dalla consapevolezza dell’interdipendenza universale.
Questo schema illustra come la compassione nel Mahāyāna non sia statica, ma un processo dinamico che conduce alla dissoluzione completa dell’illusione dell’io. La mahākaruṇā è l’ideale del bodhisattva: un amore incondizionato che non discrimina, non cerca ricompense e non lascia tracce di sé.
3.8 Divergenze Profonde: Abnegazione vs. Benessere Relazionale
Una contrapposizione radicale emerge nel rapporto con il sé. Nel Mahāyāna, la compassione richiede l’abbandono totale dell’ego, visto come radice della sofferenza. Il bodhisattva non agisce per il proprio meritocratico “benessere”, ma per la liberazione collettiva, anche a costo della propria illuminazione. Questo contrasta con la visione occidentale, dove la compassione è spesso concepita come un equilibrio tra cura di sé e cura degli altri, una “competenza emotiva” da integrare nella vita quotidiana senza rinunciare alla propria identità.
Per il Buddhismo, il sé non è solo un costrutto sociale o psicologico, ma un’illusione da dissolvere attraverso la pratica meditativa. La compassione autentica nasce solo quando non esiste più un “io” che prova compassione: è l’universo stesso che agisce attraverso di noi. Nel contesto secolare, invece, la compassione rimane ancorata alla dualità soggetto/oggetto, con rischi di burnout o identificazione con il ruolo di “salvatore”.
3.9 Conclusione
L’analisi delle diverse interpretazioni della compassione rivela un contrasto fondamentale:
- Il Mahāyāna la vede come un percorso di trasformazione ontologica, dove la dissoluzione dell’io e la comprensione della vacuità permettono un’azione compassionevole universale.
- La prospettiva occidentale, pur riconoscendone il valore emotivo e sociale, la concepisce come una competenza da sviluppare entro i limiti dell’identità individuale.
Queste visioni non sono necessariamente in conflitto, ma possono integrarsi. La psicologia e le neuroscienze moderne offrono strumenti per misurare e coltivare la compassione in contesti clinici e sociali, mentre il Buddhismo sfida l’Occidente a interrogarsi sulle radici illusorie del sé e sull’etica di un’azione compassionevole senza fine ultima. Come suggerisce Garfield, una sintesi tra queste prospettive potrebbe guidare nuove pratiche di compassione radicale, capaci di trasformare non solo gli individui, ma l’intera società (Garfield et al., 2025).