1  Radici e Differenze

1.1 Introduzione

“Un uccello ha bisogno di due ali: saggezza e compassione.”
(Proverbio tibetano)

Un aneddoto illuminante, spesso citato nei dialoghi tra le tradizioni buddhiste e il pensiero occidentale, riguarda uno scambio avvenuto nel 1990 tra Sua Santità il Dalai Lama e la meditante Sharon Salzberg, durante un convegno del Mind and Life Institute sul tema “Emozioni e Salute”. Alla domanda sul suo pensiero riguardo all’odio verso sé stessi (“self-hatred”), il Dalai Lama rispose semplicemente: “Cos’è?”.

Questa reazione, sorprendente per molti partecipanti occidentali abituati a confrontarsi con profondi sentimenti di inadeguadezza e auto-giudizio (come testimoniato dalla stessa Salzberg anni dopo), rivela un divario concettuale nel modo di intendere certe esperienze interne e le risposte ad esse.

Questa discordanza non si limita a specifiche emozioni, ma si estende a come determinati concetti chiave delle tradizioni buddhiste, in particolare quella indo-tibetana, vengano compresi e applicati nel contesto contemporaneo, specialmente in ambito psicologico e clinico.

Un esempio rilevante di tale divergenza, esplorato a fondo da Dunne e Manheim (2023) nel loro articolo (Dunne & Manheim, 2023), concerne il rapporto tra compassione e auto-compassione. Sebbene le fonti buddhiste abbiano indubbiamente ispirato il concetto moderno di auto-compassione in ricerca e pratica clinica, gli autori argomentano che le tradizioni buddhiste indo-tibetane intendano la compassione (tradizionalmente orientata verso gli altri) in modi che risultano incompatibili con la nozione contemporanea di dirigere la compassione verso sé stessi. Il loro lavoro esamina approfonditamente queste differenze teoriche e pratiche.

Partendo dall’osservazione di come anche nozioni apparentemente vicine, come i concetti di compassione e auto-compassione, rivelino profonde differenze di interpretazione tra la tradizione buddhista e la modernità, in questa presentazione ci proponiamo di esplorare in profondità il concetto di compassione (karuṇā) così come viene inteso, articolato e praticato nella tradizione buddhista indo-tibetana. Analizzeremo le sue molteplici dimensioni, confrontandole criticamente con le semplificazioni o i fraintendimenti comuni al fine di offrire una prospettiva più ricca, accurata e fedele alle fonti originali.

1.2 La Coltivazione della Compassione

La coltivazione della compassione è un tema centrale in tutte le tradizioni buddhiste. La compassione (Skt., karuṇā), definita come una consapevolezza profonda della sofferenza altrui (duḥkha, दुःख) accompagnata dal desiderio di alleviarla, è un concetto antico che il Buddhismo ha sviluppato in modo sistematico e approfondito fin dalle sue origini.

Sebbene la compassione sia apprezzata universalmente in tutte le correnti buddhiste, essa divenne un tema particolarmente centrale nella letteratura, teoria e pratica del Grande Veicolo o Mahāyāna, la cui emergenza in Asia meridionale risale all’inizio dell’Era Comune (Gethin, 1998). Con la diffusione del Buddhismo Mahāyāna in altre parti dell’Asia, la compassione mantenne la sua importanza fondamentale, divenendo un aspetto particolarmente saliente e distintivo del Buddhismo Tibetano.

Le pratiche focalizzate sulla coltivazione della compassione sono una caratteristica onnipresente delle forme tipiche di meditazione quotidiana trovate attraverso tutte le tradizioni tibetane (Kongtrul, 1987). In collaborazione con maestri indiani, i Tibetani svilupparono inoltre uno stile unico, centrato sulla compassione, di letteratura e pratica noto come “Addestramento Mentale” [Tib., blo sbyong; Jinpa et al. (2014)]. Le tradizioni tibetane si dimostrarono particolarmente attente alla letteratura filosofica e contemplativa sanscrita che articolava il ruolo centrale della compassione nel Buddhismo Mahāyāna, come testimoniato, ad esempio, dalla grande popolarità del testo di Śāntideva del VII secolo, il Bodhicaryāvatāra o Guida allo stile di vita del Bodhisattva (Jinpa, 2019).

Più recentemente, la compassione e la sua coltivazione sono diventate anche oggetto di crescente interesse nelle pratiche e ricerche psicologiche contemporanee, influenzando la psicologia moderna proprio partendo dalle sue radici religiose e filosofiche nel Buddhismo.

La presente presentazione si propone di esplorare le molteplici sfaccettature della compassione e le modalità della sua coltivazione, mettendo a confronto le prospettive buddhiste tradizionali e le interpretazioni contemporanee secolarizzate. Lo scopo di questa esplorazione non è semplicemente quello di risalire alle radici buddhiste della compassione, ma piuttosto quello di comprendere ciò che le moderne interpretazioni secolarizzate potrebbero aver tralasciato o modificato nel processo di adattamento. Questo ci permetterà di cogliere aspetti forse trascurati o ridimensionati, con l’obiettivo di ampliare e arricchire sia la comprensione teorica sia la pratica corrente della compassione.

A tal fine, inizieremo con un’analisi della compassione nel buddhismo, con particolare attenzione alla tradizione Mahāyāna e al suo ruolo fondamentale nella pratica del bodhisattva. Proseguiremo approfondendo alcuni dei principali metodi di coltivazione della compassione, tra cui la meditazione, la pratica specifica di Tonglen, e la riflessione sulla non-dualità (advaya, अद्वय). Infine, esamineremo il modo in cui la compassione viene reinterpretata nelle pratiche secolarizzate e quali elementi distintivi della tradizione buddhista possano essere stati persi o trasformati in tale processo.

1.3 Karuṇā: la Compassione come Percorso di Trasformazione

Nel buddhismo, il termine sanscrito karuṇā (karuṇā, करुणा), generalmente tradotto come “compassione”, è meglio reso, come suggerito da Jay L. Garfield in Buddhist Ethics (2022), come “cura” (Garfield, 2022). Questa scelta terminologica sottolinea che karuṇā

non è un mero sentimento, ma una determinazione ad agire per alleviare la sofferenza degli esseri senzienti.

Questa distinzione indica che la compassione buddhista è intrinsecamente attiva e implica una partecipazione consapevole alla trasformazione del proprio rapporto con il mondo. Nella tradizione Mahāyāna, in cui karuṇā divenne un tema centrale (Gethin, 1998), la compassione e la saggezza (prajñā) sono considerate i due pilastri fondamentali dell’etica e della pratica spirituale.

L’ideale del bodhisattva, centrale nel Mahāyāna, incarna questo principio: egli non cerca l’illuminazione solo per sé, ma si impegna a liberare tutti gli esseri dal saṃsāra, spinto dalla bodhicitta, la “mente del risveglio” che unisce altruismo e saggezza.

Alla base di questo impegno vi è la mahākaruṇā, la “grande compassione”, non fondata su attaccamento emotivo ma sulla profonda comprensione dell’interdipendenza (pratītyasamutpāda).

Il forte accento sulla compassione nel Buddhismo Mahāyāna Indo-Tibetano emerge dai testi filosofici sanscriti fondamentali (Dreyfus, 2003) che articolano come il raggiungimento del più alto obiettivo spirituale, la buddhità (bodhi), richieda la coltivazione congiunta di saggezza e compassione (McClintock, 2010). Mentre la saggezza permette di sradicare l’ignoranza (avidyā) e ottenere la cessazione della propria sofferenza (mokṣa), per la buddhità completa è indispensabile la mahākaruṇā imparziale per tutti gli esseri senzienti.

Questa necessità teorica risiede, in parte, nel suo immenso potere motivazionale (McClintock, 2010): sebbene il desiderio di liberarsi dalla propria sofferenza sia sufficiente a rimuovere l’oscurazione “afflitta” (kliṣṭa), la seconda e più sottile oscurazione, quella “riguardante ciò che è da conoscere” (jñeya), che impedisce la saggezza onnisciente di un Buddha, può essere eliminata solo dalla motivazione ben più potente fornita dalla mahākaruṇā, orientata a eliminare la sofferenza di infiniti esseri senzienti (Blo-bzan-grags-pa, 2000).

Questa prospettiva teorica, che distingue la compassione dall’amore (maitrī) definendola come l’aspirazione che un altro essere sia libero dalla sofferenza (Dalai Lama et al., 2020), implica che la compassione distoglie l’attenzione da sé stessi e la dirige verso gli altri, rompendo l’autocompiacimento e trovando la sofferenza altrui “insopportabile” per i bodhisattva (AnālAyo, 2017; Dalai Lama et al., 2020; Sthiramati, 1925, p. 28, che cita una etimologia linguistica per karuṇā come kaṃ ruṇaddhi, “ciò che blocca la felicità”).

L’enfasi sulla preoccupazione per gli altri porta a considerare un’altra nozione chiave nelle tradizioni tibetane: il “prendersi cura di sé” o “auto-accudimento”, identificato come il principale bersaglio della tradizione tibetana dell’“Addestramento Mentale” (blo sbyong) (Jinpa, 2019), che mira a invertire radicalmente la tendenza a dare priorità al proprio benessere rispetto a quello altrui.

Questa attenzione ubiqua alla coltivazione della compassione nelle forme tipiche di contemplazione quotidiana attraverso tutte le tradizioni tibetane (Kongtrul, 1987), l’elaborazione di metodi specifici come il blo sbyong (Jinpa et al., 2014), e l’attenzione alla letteratura sanscrita che articola il ruolo centrale della compassione (come il Bodhicaryāvatāra di Śāntideva - Jinpa, 2019), sottolineano un punto chiave nella teoria Mahāyāna: la compassione è necessariamente orientata verso gli altri, al punto che la stessa nozione di “auto-compassione” è considerata problematica, quasi un ossimoro (“conspicuous by its absence” nelle costruzioni della compassione Mahāyāna, con la precisazione che il raggiungimento della buddhità include anche la propria emancipazione dalla sofferenza - Anālayo & Dhammadinnā, 2021a). Sebbene la natura problematica dell’“auto-compassione” dalla prospettiva teorica Mahāyāna sia chiara, la considerazione delle pratiche tibetane può aggiungere ulteriore chiarezza, pur sollevando la possibilità che qualcosa di simile all’auto-compassione possa essere reinterpretato in modo coerente con la prospettiva Mahāyāna (Anālayo & Dhammadinnā, 2021a).

Metodi di Coltivazione della Compassione

Le tradizioni del Mahāyāna propongono diversi approcci didattici per la coltivazione della compassione, che mirano a renderla una qualità spontanea e profondamente radicata. Tra questi si distinguono un Metodo Costruttivo, volto a sviluppare qualità positive come la gentilezza (maitrī) e la generosità (dāna) per favorire un atteggiamento di apertura; un Metodo Decostruttivo, che lavora sulla dissoluzione delle barriere alla compassione tramite la comprensione della vacuità (śūnyatā) e della non-dualità (advaya, अद्वय); e un Metodo Cognitivo-Analitico, basato sulla riflessione consapevole e analitica sulle cause della sofferenza (tṛṣṇā – desiderio insaziabile; upādāna – attaccamento; avidyā – ignoranza della realtà).

Le tradizioni tibetane hanno sviluppato, sulla base di precedenti indiani ma con caratteristiche uniche, specifiche pratiche contemplative per coltivare la compassione, attestate nella letteratura tibetana almeno dal XII secolo. Tre di queste pratiche spiccano per la loro unicità: la Pratica delle Sette Cause ed Effetti (Blo-bzan-grags-pa, 2000), il Dare e Prendere (Jinpa et al., 2014), e l’Uguagliare e Scambiare Sé Stesso con Gli Altri (Blo-bzan-grags-pa, 2000). Sebbene debitrici a precedenti indiani (specialmente la terza), le istruzioni e l’interpretazione di queste pratiche sono distintamente tibetane. I loro set di istruzioni, sistematizzati non più tardi del XIV secolo, sono rimasti stabili nel corso dei secoli, come dimostrano le loro recenti presentazioni da parte di autorevoli maestri tibetani (Dalai Lama XIV, 2003). Tali pratiche hanno inoltre ispirato vari aspetti degli interventi contemporanei basati sulla compassione, inclusi in particolare il Cognitive Based Compassion Training (CBCT) e il Compassion Cultivation Training (CCT) (Lavelle, 2017). L’analisi di queste pratiche rivela caratteristiche che ci aiutano a comprendere perché il concetto di “auto-compassione” sia “cospicuo per la sua assenza” nel Mahāyāna Indo-Tibetano, non solo a livello teorico ma anche nella pratica contemplativa.

Queste pratiche tibetane presentano diverse caratteristiche rilevanti. Una caratteristica chiave è che, pur non implicando la direzione della propria compassione verso sé stessi, iniziano con visualizzazioni o altre tecniche attraverso cui si sperimenta il ricevere compassione da un altro, in particolare da un essere spiritualmente realizzato come un buddha (Paul Condon & Makransky, 2020; Makransky, 2007).

Nelle prime due pratiche (Sette Cause ed Effetti e Dare e Prendere), si inizia ricevendo compassione da un parente stretto o un caregiver. Questa strategia mira a sviluppare la “grande compassione” imparziale per tutti gli esseri attingendo all’inclinazione verso la compassione parziale per i propri cari. Le pratiche iniziano con intense visualizzazioni di persone care, paradigmaticamente la propria madre, verso cui si prova profondo affetto, sperimentando il ricevere cura e attenzione. Successivamente, si visualizza la persona amata che sperimenta difficoltà per evocare e potenziare quella compassione spontanea che tendiamo a sentire per i parenti stretti o per chi ci identifichiamo (Goetz et al., 2010; Zaki, 2020). Vengono poi utilizzate tecniche per includere altri esseri nella cerchia dei propri cari, estendendo così la stessa compassione spontanea a loro fino a raggiungere la compassione imparziale che è l’obiettivo finale (Blo-bzan-grags-pa, 2000). Il punto fondamentale è che la fenomenologia di queste pratiche assume una postura relazionale, di “seconda persona” (Zahavi, 2015): non si evoca la propria sofferenza (prima persona), né si osserva quella altrui in modo distaccato (terza persona), ma ci si impegna empaticamente con la sofferenza altrui in modo relazionale.

La seconda caratteristica rilevante si applica in particolare alla pratica più cognitiva dell’Uguagliare e Scambiare Sé Stesso con Gli Altri. Questa pratica, che può seguire o meno l’evocazione di relazioni familiari, inizia con la considerazione della nostra “umanità comune” (Dalai Lama XIV, 2012), in particolare il desiderio universale di felicità e l’assenza del desiderio di sofferenza. Il praticante è quindi invitato a riflettere sulla propria reazione spontanea per alleviare la propria sofferenza (l’esempio della mano che si ritrae dal fuoco) e a interrogarsi sul perché la propria sofferenza sia di maggiore interesse di quella altrui. Si contemplano vari argomenti (Dunne, 2019) intesi a disattivare le distinzioni tra sé/altri e ingroup/outgroup. Mentre la versione indiana di Śāntideva sembra richiedere un vero e proprio scambio di identità, l’approccio tibetano enfatizza uno scambio di priorità, in modo che la sofferenza altrui venga considerata più importante della propria (Jinpa, 2019). Valutando le caratteristiche di questa pratica, emergono due punti chiave: vi è un certo coinvolgimento con la propria sofferenza in prima persona, ma solo per evidenziare i propri pregiudizi e l’impulso spontaneo all’auto-liberazione; e la prioritarizzazione della sofferenza altrui deve portare a una mancanza di preoccupazione per la propria felicità, a favore di una fortissima enfasi sulla felicità degli altri. Questo è splendidamente evocato dal noto verso di Śāntideva: “Tutti coloro che nel mondo sono sofferenti lo sono perché desiderano la propria felicità. Tutti coloro che nel mondo sono felici lo sono perché desiderano la felicità altrui” (Śāntideva, Bodhicaryāvatāra, citato da Anālayo & Dhammadinnā, 2021b).

Questi approcci tradizionali forniscono un percorso integrato che unisce saggezza, analisi cognitiva ed esperienza relazionale trasformativa, andando oltre la mera emozione, e che porta a una pratica della compassione più profonda e radicata, intrinsecamente orientata verso gli altri.

L’Incompatibilità dell’Auto-compassione con la Pratica Mahāyāna e una Possibile Eccezione

Per valutare l’auto-compassione in relazione alla pratica Mahāyāna Indo-Tibetana, è utile chiarire cosa si intende per “auto-compassione” secondo l’approccio sviluppato da Neff e colleghi, incluso Christopher Germer. Neff, partendo da una precedente definizione di compassione orientata verso gli altri, “ha sviluppato questa definizione di compassione per gli altri in un modello di auto-compassione, sostenendo che l’auto-compassione può essere vista come compassione diretta interiormente verso il sé” [p. 17; Strauss et al. (2016)]. Secondo questo modello, l’auto-compassione richiede un tipo di auto-oggettificazione, un “vedere sé stessi come altro”, che consente di prendere il proprio sé come oggetto della propria compassione. Per Neff, Germer e colleghi, l’auto-compassione presenta tre caratteristiche principali (Neff, 2012):

  • la “self-kindness” (gentilezza verso sé stessi), che implica essere calorosi e comprensivi verso il proprio sé come oggetto di tale gentilezza;
  • la “common humanity” (umanità comune), che consiste nel riconoscere la sofferenza come aspetto universale e inevitabile dell’esistenza umana;
  • la “mindfulness” (consapevolezza), intesa in gran parte nelle sue applicazioni cliniche contemporanee derivate principalmente dal lavoro di Jon Kabat-Zinn e colleghi (Kabat-Zinn, 2011).

Di queste tre caratteristiche, la mindfulness è la meno problematica da una prospettiva buddhista, poiché si può argomentare che la mindfulness contemporanea, pur emergendo da molteplici influenze, presenta chiare continuità con le tradizioni buddhiste (Dunne, 2011).

La seconda caratteristica spesso associata alla compassione, l’umanità comune, richiede una distinzione per essere pienamente compresa nel contesto delle tradizioni Indo-Tibetane. Se intesa semplicemente come una tecnica o un metodo per coltivare la compassione – ovvero, un modo per riconoscere la comune aspirazione di tutti gli esseri alla felicità e il loro desiderio di evitare la sofferenza – essa non presenta particolari problemi per queste tradizioni, come suggerito da testi quali Dalai Lama et al. (2020).

Tuttavia, un’interpretazione diversa dell’umanità comune la considera una qualità costitutiva della compassione stessa: l’idea che la compassione sorga perché riconosciamo e condividiamo la nostra vulnerabilità fondamentale e la nostra esperienza di sofferenza con gli altri. Questa prospettiva entra in tensione con l’obiettivo ultimo della liberazione (nirvāṇa) che, nelle tradizioni Indo-Tibetane, consiste nella completa e irreversibile cessazione della sofferenza (Gethin, 1998).

In un contesto psicologico occidentale, l’idea di umanità comune sottolinea spesso questa condivisione di fragilità di fronte alle difficoltà della vita (Strauss et al., 2016, p. 17). Ma per un praticante che ha raggiunto lo stato di liberazione, in cui la sua sofferenza personale è cessata, l’idea di una propria vulnerabilità condivisa con coloro che soffrono non è più applicabile a sé stesso. Nonostante ciò, la compassione universale verso tutti gli esseri che continuano a soffrire non viene meno. La difficoltà, quindi, risiede nel definire la compassione come essenzialmente basata sulla condivisione dell’esperienza della sofferenza, quando il percorso spirituale culmina proprio nel trascendere quell’esperienza a livello individuale.

Ciò detto, la prima caratteristica, la self-kindness (gentilezza verso sé stessi), è la più problematica, poiché è articolata in modo molto diretto come un’oggettificazione del sé (vedersi come altro) al fine di diventare oggetto della propria benevola attenzione, con lo scopo di auto-conforto e auto-cura.

L’auto-oggettificazione richiesta da questo approccio all’auto-compassione appare incompatibile con le caratteristiche chiave delle pratiche di compassione tibetane discusse in precedenza. Nelle prime due pratiche (Sette Cause ed Effetti e Dare e Prendere), la fenomenologia richiede una prospettiva relazionale, di seconda persona. Ci si deve concentrare sulla sofferenza altrui, non sul sé. E chiaramente, se la pratica non invita l’attenzione sulla propria sofferenza, l’auto-compassione non sarà una caratteristica di tale pratica. Nella pratica dell’Uguagliare e Scambiare Sé Stesso con Gli Altri, la propria sofferenza viene evocata, ma solo per evidenziare la natura distorta della propria risposta spontanea per evitare o alleviare la sofferenza. E poiché il punto d’arrivo di quella specifica pratica è promuovere una mancanza di preoccupazione per la propria felicità a favore di una preoccupazione fortemente potenziata per la felicità altrui, è difficile vedere come questa possa coltivare l’auto-compassione intesa come direzione della compassione verso il sé.

Esiste, tuttavia, un’eccezione possibile e interessante all’incompatibilità generale dell’auto-compassione con le pratiche di compassione tibetane. Si trova in alcuni dei testi più antichi sull’Addestramento Mentale (blo sbyong), come le Root Lines of Mahāyāna Training (Jinpa et al., 2006). Un esempio comparativamente più tardo appare nel Great Path of Awakening, un testo sull’Addestramento Mentale di Jamgön Kongtrül Lodrö Tayé, un celebre filosofo contemplativo tibetano del XIX secolo. L’istruzione in questione fa parte della pratica del Dare e Prendere precedentemente menzionata. Per dirla in modo conciso, in quella pratica si usa il respiro come ancoraggio attentivo e, insieme a varie visualizzazioni, si “prende” la sofferenza di tutti gli esseri senzienti con l’inspirazione e si “dà” tutta la propria felicità a loro con l’espirazione; questo continua in una sequenza di inspirazioni ed espirazioni. Dopo aver descritto dettagliatamente questa pratica, Kongtrul (1987) incluse un’istruzione presente in alcuni resoconti di questa pratica: “Inizia la sequenza del prendere [la sofferenza] con te stesso”. Spiegò brevemente in seguito:

Per poter prendere su di sé la sofferenza altrui, all’inizio della sequenza inizia con te stesso. Cioè, prendi su di te in questo momento tutta la sofferenza che maturerà per te in futuro, e dopo averla purificata, prendi su di te le sofferenze altrui.

A prima vista, questo potrebbe sembrare un caso di auto-compassione, anche se non è nominato come tale. Dopotutto, proprio come si prende su di sé la sofferenza di altri esseri, così si sta prendendo una sofferenza che, sebbene futura, potrebbe comunque essere interpretata come “propria”. In alcuni modi, la caratteristica fenomenologica della seconda persona precedentemente notata potrebbe essere presente anche in questo caso, poiché questa pratica potrebbe comportare la visualizzazione dei propri sé futuri come se fossero “altri”. Allo stesso modo, il prendere su di sé la sofferenza dei propri sé futuri nel presente sembra sminuire l’idea che si debba scontare la preoccupazione per la propria felicità.

Tuttavia, nonostante queste caratteristiche, questo particolare passaggio, presente solo in alcune versioni della pratica del Dare e Prendere, non sembra essere un caso compiuto di pratica di auto-compassione. Mentre si rimuove immaginativamente la sofferenza dei propri sé futuri, si sta anche deliberatamente invitando la sofferenza sul proprio sé presente. Allo stesso modo, mentre si prende certamente la propria sofferenza (futura), non ci si impegna poi nella parte del “dare” della pratica, in cui si darebbe la propria felicità presente ai propri sé futuri. E la motivazione per prendere su di sé la propria sofferenza futura ammonta a una preparazione coraggiosa per prendere su di sé la sofferenza di tutti gli esseri, piuttosto che la risposta compassionevole e di auto-conforto alla propria sofferenza che è tipica delle pratiche di auto-compassione (Neff, 2012). Infatti, una spiegazione tradizionale di questa istruzione è che il suo scopo è ridurre la paura che si può provare nel prendere su di sé la sofferenza altrui, piuttosto che essere motivati da una compassione focalizzata sul sé (Jinpa, 2019). Nonostante queste precisazioni, questa particolare variazione della pratica del Dare e Prendere risuona comunque con la nozione di auto-compassione e presenta una certa somiglianza con la nozione di “rinuncia” come forma di auto-compassione. È questa una questione che esploreremo ora.

1.4 Rinuncia e autocompassione

Sulla scia della discussione sulla potenziale eccezione riscontrata in alcune variazioni della pratica tibetana del Dare e Prendere, che sembrava presentare delle affinità con il concetto di auto-compassione, si pone la domanda se la nozione tradizionale di rinuncia (niryāṇa) possa essere interpretata essa stessa come una forma di auto-compassione. È interessante notare come alcuni interventi contemporanei basati sulla compassione, come il Cognitive-Based Compassion Training (CBCT) e il Compassion Cultivation Training (CCT), che traggono ispirazione dalle tradizioni tibetane, includano pratiche che mirano all’auto-compassione, sebbene il concetto o il termine esplicito di “auto-compassione” sia del tutto assente nelle tradizioni tibetane stesse (Lavelle, 2017). Nonostante ciò, si potrebbe sostenere che l’auto-compassione sia implicita nella nozione di rinuncia, come suggerito da Lobsang Tenzin Negi, il creatore del CBCT. Esploriamo questa possibilità, evidenziando al contempo alcune problematicità.

In sintesi, la nozione di rinuncia è strettamente legata alla prima delle Quattro Nobili Verità fondamentali del Buddhismo: la Verità della Sofferenza (Duḥkha). Senza riconoscere di trovarsi effettivamente in uno stato di sofferenza, non è possibile intraprendere il sentiero buddhista verso la liberazione da essa (Blo-bzan-grags-pa, 2000). Su questo punto, esiste un parallelo significativo in contesti psicoterapeutici con le barriere al trattamento che emergono quando si nega o si minimizza il proprio livello di disfunzione o disagio (Mojtabai et al., 2011).

Nelle tradizioni buddhiste (in particolare quelle Mahāyāna), il termine “rinuncia” indica sia la piena consapevolezza di questa sofferenza sia la fervida aspirazione a superarla. La traduzione comune in inglese (“renunciation”) e, di conseguenza, in italiano (“rinuncia”), come resa del termine sanscrito niryāṇa, è in qualche modo fuorviante, poiché non cattura appieno la sua valenza positiva.

Anziché significare semplicemente “rinunciare a” o rifiutare qualcosa che si desidera evitare, il termine originale sottolinea l’azione di muoversi avanti o “emergere definitivamente” dalla sofferenza. Quest’ultima espressione è una resa letterale della traduzione tibetana (nges’byung) del termine sanscrito, evidenziando l’aspetto proattivo e liberatorio del concetto.

Quando intesa in questi termini (ovvero come riconoscimento della propria sofferenza e fervida aspirazione a trascenderla), la rinuncia risuona con le nozioni contemporanee di auto-compassione. Essa infatti implica non solo il riconoscimento della propria sofferenza, ma anche l’intensa aspirazione ad estinguere tale sofferenza per sé stessi.

A questo riguardo, la rinuncia è strettamente parallela al concetto di compassione (orientata agli altri), e i pensatori buddhisti hanno esplicitamente notato questo parallelismo. L’influente filosofo tibetano Blo-bzan-grags-pa (2000), ad esempio, osservò che rinuncia e compassione differiscono nel loro ‘oggetto’: la compassione si dirige verso la sofferenza degli altri, mentre la rinuncia si dirige verso la propria sofferenza.

Tuttavia, egli sosteneva che esse possiedono la medesima ‘forma’. Con ‘forma’, Tsongkhapa intendeva l’essenza o l’obiettivo dello stato mentale: sia la compassione che la rinuncia mirano ad alleviare la sofferenza per i loro rispettivi oggetti. Intesa in questo modo, la prospettiva di Tsongkhapa suggerisce che la rinuncia possa effettivamente essere compresa come una forma di compassione specificamente rivolta a sé stessi – una sorta di auto-compassione.

Nonostante i paralleli notati in precedenza, i resoconti tradizionali buddhisti sulla rinuncia presentano caratteristiche che la distinguono significativamente dall’auto-compassione intesa in termini contemporanei, come descritto da Neff e colleghi. Una differenza chiave risiede nella motivazione.

L’auto-compassione, secondo Neff e altri, mira prevalentemente a “confortare e calmare noi stessi” (Neff & Germer, 2018) e a offrire una pausa riflessiva di fronte alla sofferenza (Neff & Germer, 2017).

Al contrario, la rinuncia buddhista tradizionale è intrinsecamente legata a un senso di urgenza profonda riguardo alla propria condizione nel saṃsāra (l’esistenza ciclica) e a una forte spinta motivazionale a fuggire da tale ciclo di sofferenza. Per illustrare questo senso di sforzo urgente, le fonti tradizionali spesso ricorrono a immagini potenti, come l’essere intrappolati in una casa in fiamme (Blo-bzan-grags-pa, 2000). Ancora più intensamente, si dice che l’urgenza promossa dalla rinuncia debba essere viscerale, paragonabile a quella che si proverebbe “se si avesse la testa in fiamme”.

Questo accento sull’urgenza e sulla fuga distingue nettamente la rinuncia da una pratica orientata principalmente al conforto e alla pausa. Infatti, è proprio la funzione calmante dell’auto-compassione che, in alcuni contesti, ha sollevato dubbi sulla sua capacità di mantenere elevata la motivazione all’azione o di evitare la “pigrizia” (Neff & Germer, 2017).

Una seconda importante differenza tra la rinuncia buddhista e l’auto-compassione contemporanea riguarda la loro struttura fenomenologica nel modo in cui si affronta la propria sofferenza.

Nei resoconti buddhisti tradizionali della rinuncia, l’esperienza della propria sofferenza è spesso evocata con una postura in prima persona, come nelle potenti metafore della casa in fiamme o della testa in fiamme descritte in precedenza. Sebbene alcuni testi di Addestramento Mentale adottino anche un approccio in seconda persona per auto-ammonimenti volti a stimolare lo sforzo (ad esempio, Śāntideva che dice a sé stesso nel Bodhicaryāvatāra: “Stupido! Non è tempo di dormire…”), l’esperienza fenomenologica della sofferenza nel contesto della rinuncia tende a sottolineare l’immediatezza e l’urgenza della condizione, vissuta direttamente dal soggetto.

Al contrario, l’auto-compassione contemporanea, come definita da ricercatori quali Neff, assume tipicamente una struttura fenomenologica in cui l’individuo si osserva e interagisce con sé stesso come se fosse un’altra persona che sta soffrendo. Come spiegano Neff & Germer (2017), si “assume la postura di un ‘altro’ compassionevole verso noi stessi” (p. 480). Questo approccio si manifesta spesso in un dialogo interiore benevolo e incoraggiante, simile a come si parlerebbe a un amico in difficoltà (ibid, p. 479). Esempi concreti si trovano in item della Scala di Auto-compassione: frasi come “Cerco di essere amorevole verso me stesso quando provo dolore emotivo” o “Quando sto attraversando un momento molto difficile, mi do la cura e la tenerezza di cui ho bisogno” (Neff, 2003, p. 231) illustrano chiaramente questa “oggettivazione” del sé sofferente, trattato come l’“oggetto” di compassione da parte del sé “osservatore”.

Questa struttura fenomenologica dell’“oggettivare” il sé sofferente, sebbene centrale nella definizione contemporanea di auto-compassione e riconosciuta (e talvolta discussa criticamente per le sue implicazioni) da autori come Quaglia et al. (2020), appare incompatibile con l’immediatezza e la postura in prima/seconda persona (ma non “come altro”) con cui la propria sofferenza è tipicamente trattata nelle presentazioni tradizionali buddhiste della rinuncia.

Infine, una terza incompatibilità tra i resoconti buddhisti tradizionali della rinuncia e l’auto-compassione contemporanea riguarda un’assunzione fondamentale che sottende le tradizioni buddhiste sulla rinuncia: l’idea che tutti gli esseri senzienti abbiano un pronto accesso a quella che è stata definita “un’aspirazione intatta al benessere” [Anālayo & Dhammadinnā (2021b); p. 1357].

Questa aspirazione viene vista come una forza innata e potente. La metafora della “testa in fiamme”, ad esempio, assume che il semplice, pieno riconoscimento della profondità della propria sofferenza attivi istantaneamente questa aspirazione, generando l’urgenza e la volontà di compiere qualsiasi cosa per alleviarla. Le storie dei grandi praticanti, come Kisā Gotamī, spesso illustrano come un contatto diretto con la sofferenza possa scatenare questa ricerca della liberazione (Nyanaponika Thera & Hellmuth Hecker, 2003). Sebbene possano esserci ostacoli nel riconoscere la sofferenza o nel sapere come uscirne, i resoconti tradizionali non mettono in discussione la presenza di questo desiderio fondamentale di stare bene una volta che la sofferenza è percepita chiaramente.

Al contrario, si può argomentare che lo sviluppo delle pratiche contemporanee di auto-compassione, sostenuto da numerosi sforzi scientifici e clinici, sia motivato precisamente dall’osservazione che molti individui nelle nostre culture non manifestano spontaneamente questa aspirazione “intatta” al benessere o non sanno come accedervi di fronte alla sofferenza. Anziché presupporre questa aspirazione come un dato di fatto, le pratiche di auto-compassione sembrano spesso concepite per coltivare o riattivare quella stessa capacità di prendersi cura di sé di fronte alla difficoltà, che le tradizioni buddhiste assumono essere prontamente disponibile.

Quindi, mentre la rinuncia tradizionale si basa sulla premessa di un’aspirazione innata prontamente accessibile che viene attivata dalla sofferenza, l’auto-compassione sembra nascere dalla necessità di nutrire o costruire quella stessa capacità di auto-cura che non appare spontanea per molti.

In sintesi, nonostante alcune somiglianze superficiali e il parallelismo riconosciuto da teorici come Tsongkhapa riguardo alla “forma” (cercare sollievo dalla sofferenza per il proprio oggetto), le profonde differenze nella motivazione (urgenza vs. auto-conforto), nella fenomenologia (prima persona/critica in seconda persona vs. auto-oggettificazione) e nelle assunzioni fondamentali sull’aspirazione al benessere rendono difficile equiparare la rinuncia tradizionale buddhista con l’auto-compassione così come è intesa oggi in ambito psicologico.

La Compassione, la Vacuità e l’Integrazione delle Prospettive

Dopo aver esaminato la natura profonda della compassione (karuṇā) nella tradizione Mahāyāna e le sue modalità di coltivazione, inclusa l’analisi del rapporto con le nozioni contemporanee di auto-compassione, è utile riflettere sulla sua utilità e sulle possibilità di integrazione. Sebbene persistano alcuni dubbi sull’efficacia clinica di certi aspetti dell’auto-compassione (Muris & Otgaar, 2020), è innegabile che molte persone l’abbiano trovata utile (Ferrari et al., 2019). Pertanto, nel sottolineare le incompatibilità dell’auto-compassione con la teoria e la pratica buddhista Mahāyāna, l’intento di Dunne & Manheim (2023) non è minare la sua utilità come “mezzo abile” (upāya), ma piuttosto potenziarne l’efficacia. In quest’ottica, è importante riflettere su due questioni: l’apparente compromissione dell’aspirazione al benessere che l’auto-compassione cerca di affrontare e il ruolo che l’“oggettificazione” fenomenologica del sé (il vedersi come altro) gioca nell’affrontare tale compromissione.

Partendo dall’assunto buddhista di un’aspirazione intatta al benessere, presente in tutti gli esseri senzienti (Anālayo & Dhammadinnā, 2021b), sorge spontanea una domanda cruciale: perché le pratiche di auto-compassione sono percepite come così necessarie nel contesto contemporaneo? Se il desiderio innato di stare bene è sempre presente, cosa impedisce agli individui moderni di attingervi di fronte alla sofferenza?

Una risposta plausibile, suggerita da diversi autori (Paul Condon & Makransky, 2020; Dunne & Manheim, 2023), si trova nelle caratteristiche della modernità occidentale. La costruzione di identità altamente individualistiche e l’enfasi sull’autonomia, spesso associate a sentimenti di alienazione e isolamento, sono aggravate da quello che Charles Taylor ha definito il “cambiamento soggettivo” (subjective turn) (Taylor, 1989). Questo cambiamento ha portato a un nuovo senso di soggettività, caratterizzato da un’accresciuta auto-riflessività (McMahan, 2008). L’individuo moderno è così immerso in un contesto culturale che lo porta a rivolgersi costantemente verso l’interno e a focalizzarsi sul sé, frequentemente attraverso una lente narrativa (Schechtman, 2011).

Nota

Da How to lose yourself (Garfield et al., 2025), leggere Letting go of anxiety.

Sebbene l’auto-riflessione possa essere positiva, questo costante auto-focus, specialmente quando assume forme negative e auto-ruminative legate a schemi mentali dannosi sul sé, è fortemente correlato a disturbi come la depressione (Nolen-Hoeksema et al., 2008). È proprio in questi schemi negativi e narrative “inceppate” sul sé che l’aspirazione innata al benessere sembra rimanere bloccata o inaccessibile. La “storia del sé”, saturata di negatività e focalizzata sulle mancanze, impedisce al desiderio fondamentale di benessere di tradursi in azione o persino di essere pienamente percepito. L’individuo può volere stare meglio a un livello profondo, ma la sua narrativa interna ostacola l’accesso a quella stessa volontà.

Si può quindi ipotizzare che culture pre-moderne o meno marcatamente individualistiche e meno centrate su questo tipo di auto-riflessività problematica non presentassero la stessa diffusa difficoltà nell’accedere all’aspirazione innata al benessere. In tali contesti, la necessità di pratiche esplicite di auto-compassione, volte a creare uno spazio di gentilezza e accettazione per superare l’auto-critica e la ruminazione, potrebbe essere stata minore. Visto in quest’ottica, lo sviluppo contemporaneo dell’auto-compassione emerge come una risposta specifica e necessaria alle sfide psicologiche create dalle particolari condizioni culturali e fenomenologiche della modernità, che sembrano ostacolare l’accesso all’innata aspirazione al benessere.

In risposta a queste sfide della modernità, l’auto-compassione può essere vista come un potenziale “mezzo abile” (Upaya), uno strumento volto a contrastare l’alienazione e a mitigare gli effetti negativi dell’auto-critica. L’intento è quello di incoraggiare l’individuo a rivolgersi a sé stesso con maggiore gentilezza, promuovendo narrative interne più benevole e un senso di umanità comune che riduca l’isolamento (Neff & Germer, 2017).

Tuttavia, emerge una domanda critica riguardo alla struttura fenomenologica intrinseca dell’auto-compassione, precedentemente discussa: l’“oggettificazione” del sé — l’atto di vedersi come se si fosse un’altra persona che soffre. C’è il rischio che questa stessa postura di distacco, pur con intento benevolo, possa in realtà perpetuare o persino rafforzare il problema sottostante che cerca di risolvere.

Consideriamo infatti che il “cambiamento soggettivo” della modernità, specialmente nella sua espressione narrativa, si caratterizza proprio per questa tendenza a distaccarsi dal sé vissuto in prima persona per osservarlo e costruire narrazioni a riguardo. Se l’auto-compassione adotta una struttura che imita questa stessa fenomenologia di oggettivazione e narrazione del sé, si potrebbe argomentare che non sta superando il problema dell’auto-focus disfunzionale, ma lo sta riproponendo in una forma (intenzionalmente) più gentile.

Inoltre, la correlazione tra l’eccessivo e negativo auto-focus e la depressione suggerisce che incoraggiare l’individuo a produrre più storie sul sé, anche se mirano a essere più gentili, potrebbe non essere efficace o persino controproducente per coloro che già lottano con narrative auto-denigratorie e trovano difficile ricevere o dirigere la compassione, sia verso sé stessi che dagli altri (Philip Condon & Makransky, 2020). Questo solleva un dilemma: l’auto-compassione è un vero superamento del problema dell’auto-focus dannoso, o ne è una continuazione benevola che potrebbe non affrontare la radice del disagio causato dalla struttura stessa dell’identità moderna?

Nel complesso, gli interventi sull’auto-compassione potrebbero beneficiare da approcci che non richiedono auto-oggettificazione e che riducono la necessità di costruire narrative sul sé. In tali approcci, si sperimenta la compassione da una prospettiva di prima persona, non per sé stessi come “altro”. In questo senso, promettente è il Sustainable Compassion Training (SCT) di John Makransky, che invita a sperimentare il ricevere compassione e amore senza “oggettificarsi” (Makransky, 2007).

Alla luce della potenziale problematicità insita nella struttura fenomenologica dell’auto-compassione (l’oggettificazione del sé come “altro”), emergono approcci alternativi o complementari che meritano considerazione. Ad esempio, interventi che utilizzano la realtà virtuale per facilitare l’esperienza di ricevere compassione da sé stessi mostrano potenziale proprio perché possono ridurre l’auto-oggettificazione solitamente coinvolta in un’interazione diretta o in un dialogo interno tradizionale (Falconer et al., 2016).

Per coloro che trovano difficile impegnarsi nella simulazione richiesta dall’auto-compassione tradizionale (il rivolgersi a sé stessi come se si fosse un altro), un approccio più efficace potrebbe essere quello di aiutare a mettere da parte, o lasciar andare, lo schema narrativo negativo del sé che blocca l’aspirazione innata al benessere. Qui, un aspetto della mindfulness – presente anche se forse non sempre centralmente enfatizzato nell’approccio di Neff, Germer e colleghi – diventa cruciale: la dereificazione.

La dereificazione consiste nel riconoscere pensieri e narrazioni (inclusa la “storia del sé”) semplicemente come eventi mentali transitori, anziché come verità assolute o descrizioni intrinseche della realtà. Ovvero, “uscire dalla linea narrativa della nostra sofferenza” e “lasciar andare la storia di ciò che sta accadendo”, particolarmente la storia sul sé che creiamo [Neff & Germer (2018); p. 44]. La ricerca clinica sta sempre più evidenziando il potente impatto della dereificazione (Segal et al., 2019), specialmente nel lavorare con individui “cognitivamente bloccati” in narrative negative e ruminative (Joormann et al., 2011).

Dalla prospettiva buddhista tradizionale, mentre sostituire narrative negative con altre più benevole può offrire sollievo e rappresentare un passo utile, la liberazione più profonda si realizza spesso andando oltre il contenuto delle storie stesse. Talvolta, lasciar andare tutte le storie, anche quelle che percepiamo come positive o costitutive del nostro sé narrativo, può rivelarsi un approccio ancora più radicale ed efficace per trascendere la sofferenza legata all’identità concettuale.

Superate le sfide legate alla narrazione rigida del sé e alla potenziale oggettificazione, possiamo ora rivolgerci al nucleo trasformativo della compassione nel Buddhismo Mahāyāna. Qui, un concetto fondamentale emerge come essenziale per il percorso spirituale: la vacuità (śūnyatā).

È cruciale comprendere che la vacuità non significa il “nulla” o l’inesistenza nichilista. Piuttosto, indica la mancanza di un’esistenza intrinseca, autonoma e indipendente (svabhāva) in tutti i fenomeni. Ogni cosa che esiste, incluso il sé individuale (anātman), lo fa non per sua propria forza, ma solo in dipendenza da cause e condizioni. Questo principio cardine è noto come originazione dipendente (pratītyasamutpāda).

La comprensione dell’originazione dipendente rivela una realtà di profonda interconnessione. Tutti gli esseri e fenomeni sorgono e cessano insieme, interrelati in un vasto tessuto di relazioni causali. Non esistono entità isolate o solide alla loro base.

Questa realizzazione della vacuità e dell’interdipendenza ha un impatto trasformativo diretto sulla compassione. La visione dualistica e radicata nell’ignoranza di un sé solidamente esistente e separato dagli altri è la radice dell’attaccamento egoico e della sofferenza che limita la nostra capacità di preoccuparci sinceramente per gli altri. Comprendendo la vacuità del sé e dei fenomeni, questa visione errata si dissolve.

Quando si percepisce la realtà dell’interdipendenza e l’assenza di confini intrinseci tra “me” e “l’altro”, l’aspirazione ad alleviare la sofferenza non è più limitata o distorta dall’attaccamento a un sé separato da proteggere o affermare. Questo permette l’emergere di una compassione più autentica e sconfinata, non più condizionata dalla paura di perdere un sé solido o da un’identificazione egoica con la sofferenza altrui (“mi sento male per te in relazione a me”).

È su questa profonda consapevolezza dell’interconnessione universale, resa possibile dalla realizzazione della vacuità, che il bodhisattva sviluppa la grande compassione (mahākaruṇā). La mahākaruṇā scaturisce dalla visione chiara che il sé e gli altri, privi di esistenza intrinseca, sono fondamentalmente interconnessi. Questa compassione è “grande” non solo per la sua vastità, ma perché non è vincolata dalle limitazioni dell’ego e non nasce dal semplice “sentirsi male per” l’altro in modo reattivo, ma da una lucida percezione della realtà: se non c’è un sé intrinsecamente separato dalla sofferenza, l’impulso ad alleviarla diventa universale e incondizionato.

In conclusione, nel Buddhismo Mahāyāna, il pieno svilluppo della compassione è indissolubilmente legata alla saggezza che comprende la vacuità, un viaggio che ci porta oltre la narrazione di un sé solido verso la liberazione attraverso l’interconnessione.

1.5 Conclusioni

Negli ultimi decenni, la compassione è diventata un tema centrale anche nelle pratiche psicologiche e nella mindfulness secolarizzata. Tuttavia, è importante notare che le pratiche secolarizzate differiscono significativamente dall’approccio buddhista tradizionale.

  • Le pratiche moderne tendono a focalizzarsi sul benessere individuale e sul miglioramento delle relazioni interpersonali, mentre nel Mahāyāna la compassione è primariamente un mezzo per trascendere la nozione di sé separato e lavorare per la liberazione di tutti gli esseri.
  • Vi è poi una mancanza di una dimensione cognitiva profonda nell’approccio secolare, che si concentra sugli aspetti emotivi e comportamentali, mentre il buddhismo integra la compassione in una trasformazione cognitiva radicale, basata sulla saggezza (prajñā) e sulla comprensione della vacuità (śūnyatā).
  • Infine, a differenza della tradizione Mahāyāna che implica un impegno etico e spirituale profondo attraverso il voto del bodhisattva e una visione del mondo basata sull’interdipendenza universale, le pratiche secolarizzate non implicano necessariamente tale impegno o visione globale.

Ciononostante, Dunne & Manheim (2023) suggeiscono che, pur essendo strumenti preziosi nel loro contesto, le pratiche secolari possono trarre enorme beneficio dalla comprensione buddhista della compassione non solo come risposta emotiva, ma come un processo di trasformazione della consapevolezza e della visione della realtà. Integrare la prospettiva Mahāyāna con la pratica contemporanea permetterebbe di ampliare l’approccio alla compassione, non solo come tecnica per gestire la sofferenza individuale, ma come un percorso che trasforma radicalmente la visione della propria connessione con il mondo e con tutti gli altri esseri.

In definitiva, sebbene le pratiche secolari e quelle buddhiste condividano l’obiettivo generale di promuovere una maggiore benevolenza, differiscono notevolmente nei mezzi, nelle finalità ultime e nel quadro concettuale. Mentre la compassione secolare si concentra principalmente sugli aspetti emotivi e comportamentali per il benessere individuale, il buddhismo offre un percorso cognitivo, etico e spirituale che porta a una nuova e più profonda comprensione della realtà interconnessa. L’integrazione di saggezza (prajñā) e compassione (karuṇā) nella tradizione Mahāyāna non solo risponde alla sofferenza, ma conduce a una visione radicalmente trasformata del sé, del mondo e della propria posizione in esso, che è il segno distintivo della liberazione.

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