10 Meditazione Tonglen
Dopo avere esaminato in precedenza le caratteristiche generali della pratica della mediatazione, in questo capitolo esamineremo un particolare tipo di meditazione, ovvero la meditazione Tonglen. Tale meditazione è stata proposta da Śāntideva nel Bodhicaryāvatāra. Come abbiamo già detto, la meditazione Tonglen è particolarmente importante perché costituisce il fondamento delle meditazioni guidate della coltivazione secolarizzata della compassione.
Śāntideva, monaco buddista indiano del Mahāyāna, visse tra la fine del VII e la metà dell’VIII secolo d.C., trascorrendo gran parte della sua carriera presso l’università monastica di Nālandā. È noto per due testi fondamentali: Bodhicaryāvatāra (“Introduzione alla pratica del risveglio”) e Śikṣāsamuccaya (“Compendio degli addestramenti”). La sua influenza è particolarmente rilevante nella filosofia morale, grazie al contributo allo studio delle virtù, del benessere e del rapporto tra metafisica ed etica. Nel Bodhicaryāvatāra, il nono capitolo presenta una discussione sul concetto di vacuità (śūnyatā), principio centrale della tradizione Madhyamaka.
Negli ultimi anni, Śāntideva ha conosciuto una rinascita di interesse sia tra i praticanti del buddismo tibetano, con commentari di figure come il Dalai Lama e Pema Chödrön, sia in ambito accademico, dove il Bodhicaryāvatāra è riconosciuto come testo fondamentale per lo studio dell’etica buddista indiana.
La meditazione Tonglen proposta da Śāntideva costituisce una delle forme più estreme di decostruzione e ri-costruzione creativa del sé. Esamineremo qui di seguito i passaggi del Bodhicaryāvatāra che sono serviti come risorsa per la meditazione Tonglen.
10.1 Il Bodhicaryāvatāra
Il Bodhicaryāvatāra è un testo canonico composto da dieci capitoli e 913 versi, progettato per guidare il lettore nello sviluppo delle virtù del bodhisattva, tra cui le sei perfezioni (pāramitās): generosità, moderazione etica, pazienza, sforzo energetico, concentrazione e saggezza. Promuove anche altre virtù come compassione, consapevolezza e introspezione. Più che un trattato teorico, è un manuale di meditazione pratico, pensato per aiutare i praticanti a coltivare queste qualità attraverso l’esperienza meditativa.
Il testo è caratterizzato da una natura ambigua e plurale, che consente interpretazioni diverse: come manuale rituale, guida meditativa, trattato etico o metafisico, e persino come poema devozionale. Questa complessità ha stimolato secoli di dibattiti filosofici in India, Tibet e più recentemente in Occidente. Tuttavia, la sua mancanza di struttura sistematica ha reso difficile la produzione di commentari organici.
Nelle tradizioni scolastiche tibetane, il Bodhicaryāvatāra è stato oggetto di elaborati commentari per adattarlo alle esigenze delle istituzioni monastiche. Tra questi spicca l’interpretazione di Tsong Kha Pa, che ha influenzato significativamente la comprensione del testo nella tradizione tibetana. Nonostante la sua complessità, il Bodhicaryāvatāra rimane un’opera fondamentale per la comprensione del sentiero del bodhisattva.
10.2 Bodhicitta e il Voto del Bodhisattva
Il Bodhicaryāvatāra guida i bodhisattva nell’impegno pratico (avatāra) verso lo sviluppo delle qualità spirituali necessarie per raggiungere il risveglio (bodhi). Strutturato in dieci capitoli, descrive il processo di generazione, mantenimento e sviluppo del bodhicitta – la mente votata al risveglio completo per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Il bodhisattva è colui che, animato da bodhicitta, si impegna a raggiungere il risveglio non per sé, ma per condurre gli altri al nirvāna. Per farlo, rimanda indefinitamente il proprio ingresso nel nirvāna, continuando a operare nel ciclo delle rinascite (saṃsāra) per il bene di tutte le creature.
I primi quattro capitoli si concentrano sul bodhicitta: il primo ne celebra le virtù, mentre il secondo e il terzo presentano un rituale per il voto del bodhisattva. Il quarto capitolo tratta del mantenimento di questa aspirazione, evidenziando quanto sia fragile la mente prima di entrare nel sentiero del bodhisattva. I capitoli V-VI spiegano come mantenere il bodhicitta attraverso attenzione, introspezione e tolleranza. Nei capitoli VII-IX si descrive il potenziamento di bodhicitta tramite diligenza, concentrazione meditativa e saggezza. Infine, il decimo capitolo è dedicato alle preghiere e alle dediche conclusive.
10.3 Equalizzazione e scambio di sé e dell’altro
Il percorso spirituale del bodhisattva fornisce il contesto nel quale Śāntideva, nell’ottavo capitolo del Bodhicaryāvatāra intitolato “Concentrazione meditativa,” descrive la meditazione sulla karuṇā (compassione) con queste parole:
VIII:90. Per iniziare, è fondamentale riflettere profondamente sull’uguaglianza tra sé e gli altri: “Tutti condividono le stesse sofferenze e gli stessi piaceri; dunque, devo proteggerli come proteggerei me stesso.”
VIII:91. Così come il corpo, pur avendo parti diverse, viene considerato e protetto come un’unica entità, allo stesso modo il mondo, composto da esseri distinti ma accomunati da gioie e dolori, deve essere trattato come un tutt’uno, considerando gli altri come fossero se stessi.
VIII:92. Sebbene il dolore che provo non possa essere percepito direttamente dagli altri, rimane per me insopportabile a causa del mio attaccamento al senso del sé.
VIII:93. Allo stesso modo, anche se il dolore altrui non è percepibile da me, per loro è comunque insopportabile, sempre a causa del loro attaccamento al sé.
VIII:94. Ho la responsabilità di alleviare il dolore degli altri poiché è dolore, esattamente come il mio. E devo fare il loro bene poiché sono esseri viventi, proprio come me.
VIII:95. Io e gli altri condividiamo lo stesso desiderio di felicità: in base a quale principio potrei giustificare di dedicare tutti gli sforzi esclusivamente a me stesso?
Nel Bodhicaryāvatāra, Śāntideva non descrive la coltivazione della compassione come una pratica autonoma, ma come un aspetto centrale del processo di generazione del bodhicitta. La compassione, infatti, non è considerata la virtù più elevata: essa è subordinata al bodhicitta, la mente orientata verso l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri.
Il bodhicitta si distingue per due componenti fondamentali: 1. karuṇā: il focus sul benessere degli altri. 2. prajñā: la concentrazione sulla perfetta illuminazione.
Questa dualità riflette due prospettive soteriologiche distinte ma interconnesse. Di conseguenza, le istruzioni per coltivare la compassione si trovano integrate nella descrizione del bodhicitta stesso.
10.4 Il supremo mistero
Nel capitolo ottavo, Śāntideva introduce la pratica dello scambio di sé e degli altri (parātmaparivartana), che descrive come segue:
VIII:120. Chi desidera conseguire rapidamente la propria liberazione e quella degli altri deve impegnarsi nel supremo mistero: lo scambio del sé con gli altri.
Questa pratica rappresenta un punto di incontro tra tradizione e innovazione, combinando concetti consolidati con una prospettiva trasformativa. Per il bodhisattva, essa implica vedere gli altri come sé stessi e viceversa, superando la comune visione egocentrica. Tale approccio è preceduto da una riflessione approfondita sull’importanza di trascendere l’attaccamento al sé e dedicarsi interamente al benessere altrui.
Nella meditazione sul parātmaparivartana, Śāntideva descrive un “ribaltamento” tra sé e gli altri, mirato a dissolvere l’ego del meditante:
VIII:140. Perciò considera tutti gli esseri, iniziando dai più umili, come te stesso, e considera te stesso come gli altri.
Attraverso questa pratica, il concetto di “io” (ahaṃkāra) viene ridefinito. Śāntideva utilizza una strategia linguistica in cui i pronomi personali vengono invertiti: il meditante si riferisce alla terza persona per sé stesso e alla prima persona per gli altri. Questo cambiamento mira a creare empatia e a destabilizzare l’identificazione rigida con il proprio sé.
VIII:141. Come? Costui è onorato ed io no! Costui è ricco ed io povero! Egli è lodato, io sono biasimato! Io sono pieno di sofferenza, lui è felice!
Questa inversione di prospettive consente di percepire il mondo dal punto di vista degli altri, generando una comprensione più profonda delle loro esperienze. L’obiettivo finale è mettere in discussione l’illusorietà dell’ego e promuovere un atteggiamento altruistico.
VIII:142. Io lavoro duramente, lui si riposa comodamente! Apparentemente, lui è grande nel mondo, io sono insignificante, privo apparentemente di qualità!
Dopo aver esplorato il punto di vista di un “altro inferiore” invidioso, Śāntideva invita a immaginare anche il punto di vista di un “altro superiore,” capovolgendo nuovamente i ruoli. Questo continuo scambio, definito il “supremo mistero” (parama guhya), crea una sensazione di disorientamento e richiede una lettura attenta per coglierne il significato profondo.
10.5 Le prospettive fenomenologica e ontologica
La pratica dello scambio di sé e degli altri si fonda su due principi complementari:
Fenomenologico: la comprensione diretta delle gioie e dei dolori altrui, basata sull’esperienza. Śāntideva invita il meditante a sperimentare il dolore degli altri identificandosi con loro.
VIII:114. Le proprie membra sono considerate come parti del corpo; perché non considerare gli esseri viventi come parti ugualmente dello stesso mondo?
Ontologico: la visione della realtà come interconnessione e non-dualità, radicata nel concetto di vacuità.
Entrambe queste prospettive sostengono l’estensione della compassione a tutti gli esseri in modo imparziale. Śāntideva richiama a una cura altruistica universale, integrando idee presenti nella tradizione Mahāyāna. La meditazione Tonglen, che combina l’inalazione della sofferenza altrui e l’esalazione di benedizioni, rappresenta una delle applicazioni pratiche di questi principi.
In sintesi, Śāntideva utilizza la pratica dello scambio di sé e degli altri per destabilizzare il concetto tradizionale di sé e promuovere una prospettiva più inclusiva e compassionevole. Questo cambiamento cognitivo non solo sfida l’attaccamento egoistico, ma apre anche la strada a una maggiore empatia, favorendo il progresso spirituale del meditante e la sua capacità di agire per il benessere altrui.
10.6 Una lettura dettagliata
I versi del Bodhicaryāvatāra (VIII:90-112) sono stati interpretati dai commentatori come il nucleo della pratica di “equalizzazione e scambio di sé e degli altri,” un elemento chiave della filosofia Mahāyāna. In questa sezione, Śāntideva articola una visione radicale dell’equanimità, invitando il lettore a decostruire l’attaccamento al sé per abbracciare una prospettiva universale e compassionevole.
Tuttavia, il testo presenta una sfida interpretativa: Śāntideva riconosce la sofferenza come una realtà da alleviare, pur negando l’esistenza intrinseca del sé. Questo porta a un paradosso apparente: se il sé non esiste, come può esistere la sofferenza, e perché dovremmo agire per alleviarla?
La risoluzione di Thokmé Sangpo
Thokmé Sangpo affronta questo paradosso adottando un approccio pragmatico e personale, piuttosto che ontologico. Egli sostiene che, pur essendo vero che né il sofferente né la sofferenza hanno esistenza intrinseca, alleviare la sofferenza degli altri è essenziale per ridurre anche la propria. L’esperienza personale della sofferenza è sufficiente a motivare l’azione compassionevole, senza la necessità di un fondamento ontologico. In altre parole, Thokmé Sangpo utilizza i versi di Śāntideva come strumenti per decostruire l’attaccamento egoico, più che come affermazioni metafisiche.
Śāntideva riflette questa prospettiva nei suoi versi:
VIII:103. Per quanto riguarda questo, tutti sono concordi. Se deve essere combattuto, allora che sia combattuto in tutti i suoi aspetti! Se non deve essere combattuto, allora non lo sia, né in me né negli altri!
VIII:107. Dopo aver coltivato tali pensieri e gioiosi nel lenire il dolore degli altri, i bodhisattva si immergono nell’inferno come cigni in un bosco di loto.
VIII:108. La liberazione delle creature è per loro un oceano di gioia. Il fine è raggiunto. A cosa serve un’insipida liberazione personale?
Filosofia Mādhyamika e il fine soteriologico
Questo approccio riflette la prospettiva della scuola Mādhyamika, che sottolinea la natura funzionale e soteriologica del suo pensiero, piuttosto che la costruzione di un sistema ontologico. Per Śāntideva e la tradizione Mādhyamika, l’idea di un sé indipendente è un’illusione che genera sofferenza, e il rimedio è un adeguato addestramento mentale. La pratica del “capovolgimento” (Tonglen) diventa quindi uno strumento per smantellare l’attaccamento egoico e liberare la mente dalle sue distorsioni.
10.7 Le Tre Forme di Scambio
Nel capitolo VIII, Śāntideva introduce tre modalità per praticare lo scambio tra sé e gli altri:
Scambio concettuale di autoidentificazione
Il primo approccio implica un trasferimento dell’identità (Skt. ātmabhāva) dal sé all’altro, attraverso meditazioni in cui il praticante assume la prospettiva di un’altra persona. Questo tipo di scambio, più che un esercizio astratto, è una pratica esperienziale che mira a sviluppare un nuovo rapporto con sé stessi e gli altri.Scambio di valutazione emotiva
Questo approccio si concentra sulla trasformazione degli atteggiamenti verso sé stessi e gli altri. Śāntideva suggerisce che, identificandoci con gli altri in modo profondo, potremmo sviluppare per loro la stessa cura e sollecitudine che riserviamo a noi stessi. Questo metodo agisce a livello emotivo, smorzando la preoccupazione per sé e enfatizzando l’importanza degli altri.VIII:131. Veramente, chi non è disposto a scambiare la propria felicità con il dolore altrui non solo rimane privo dello stato di Buddha, ma anche della felicità in questo mondo.
In un passaggio insolito (VIII:140-154), Śāntideva invita a coltivare intenzionalmente emozioni disturbanti, come invidia e orgoglio, per smantellare l’attaccamento egoico. Questo approccio, inusuale nella tradizione buddista, utilizza le afflizioni mentali come antidoti contro l’egoismo.
VIII:140. Pertanto, considera le creature, iniziando dalle più umili, come se fossero te stesso e te stesso come se fossi un altro; ora è il momento di coltivare senza esitazione l’invidia e l’orgoglio.
Scambio oggettivo di beni spirituali
Il terzo tipo di scambio riguarda beni astratti, come felicità (sukha) e sofferenza (duḥkha). Il praticante accetta le esperienze spiacevoli altrui come proprie, ridistribuendo lodi e benefici agli altri. Śāntideva utilizza questa pratica per ridurre ulteriormente l’attaccamento egoico e incoraggiare il servizio verso gli altri.
10.8 La didattica della compassione decostruttiva
L’approccio educativo di Śāntideva si concentra sulla destrutturazione dell’attaccamento al sé come prerequisito per una compassione autentica. La sua metodologia riflette una convinzione ottimistica: gli esseri umani possiedono un potenziale innato per la compassione, e il compito del Bodhisattva è rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’espressione.
Śāntideva insiste sulla necessità di eliminare completamente la distinzione tra sé e gli altri per raggiungere una compassione universale. Finché esistono pregiudizi e attaccamenti, anche gli atti di beneficenza o comportamenti prosociali restano incompleti. La sua visione radicale pone una sfida morale rigorosa, ma offre un modello per coltivare una compassione disinteressata e priva di malevolenza.
10.9 Śāntideva e il Tonglen nella tradizione Lojong
I versi sull’equalizzazione e scambio di sé e degli altri hanno influenzato profondamente la tradizione tibetana del Lojong e la pratica del Tonglen. Tuttavia, il Tonglen tibetano si distingue in due modi principali:
Bodhicitta convenzionale e ultimo
Nel Lojong, la pratica è associata sia al bodhicitta convenzionale (altruismo motivato dalla compassione) che al bodhicitta ultimo (realizzazione della vacuità). Questa distinzione, non esplicitata da Śāntideva, amplia il contesto soteriologico della pratica.Trasformazione delle afflizioni mentali
Mentre Śāntideva si concentra sulla decostruzione dell’attaccamento egoico, il Lojong enfatizza la trasformazione delle afflizioni mentali in virtù, integrando un elemento di crescita personale non presente nel Bodhicaryāvatāra.
Queste reinterpretazioni hanno reso la pratica più accessibile e meno radicale, pur preservando l’essenza della compassione universale.
In conclusione, l’approccio di Śāntideva, pur rigoroso e talvolta estremo, offre una prospettiva unica sulla compassione come processo di decostruzione del sé. La pratica di equalizzazione e scambio non è solo un esercizio etico, ma una trasformazione profonda che sfida la visione dualistica della realtà. La sua influenza si estende ben oltre il Bodhicaryāvatāra, attraverso tradizioni come il Lojong, continuando a ispirare praticanti e studiosi nella ricerca di una compassione autentica e inclusiva.
10.10 Riflessioni Conclusive
In questo capitolo, abbiamo esplorato il principio di uguaglianza e scambio di sé e degli altri nel Bodhicaryāvatāra di Śāntideva, evidenziando due prospettive principali: l’approccio fenomenologico, che si concentra sull’esperienza diretta della sofferenza e della compassione, e l’approccio ontologico, che analizza la natura ultima della realtà. Abbiamo anche approfondito tre modalità della meditazione sullo scambio, classificate come concettuale, valutativa e oggettiva. Queste pratiche rappresentano un metodo per superare la distinzione tra sé e gli altri, liberandosi delle strutture mentali che limitano l’espressione genuina della compassione.
La decostruzione del sé come fondamento della compassione. I versi del capitolo VIII rivelano un approccio decostruttivo alla compassione. Śāntideva invita i praticanti a smantellare la dicotomia tra sé e gli altri, identificata come una delle principali barriere alla compassione autentica. La distinzione concettuale tra sé e gli altri alimenta pregiudizi, divisioni tra gruppi, e ostacola un’etica universale. Śāntideva sottolinea che questo egocentrismo non è altro che un errore mentale, una percezione illusoria che può essere corretta attraverso l’allenamento mentale. La sua pedagogia si concentra non tanto sul potenziamento delle emozioni empatiche, quanto sulla rimozione delle strutture psicologiche disfunzionali e sulla loro sostituzione con una visione del mondo altruistica e inclusiva.
L’illusione del sé e il superamento delle distinzioni. Il cuore dell’insegnamento di Śāntideva, così come di gran parte del buddhismo, risiede nella necessità di superare l’illusione di un sé permanente e separato. Questo principio si collega al concetto di anātman (assenza di un sé intrinseco) e alla nozione più ampia di śūnyatā (vacuità). La percezione di un sé stabile deriva da un fraintendimento degli skandha (aggregati mentali e fisici) che, sebbene siano temporanei e mutevoli, vengono erroneamente considerati come costitutivi di un sé. Questa illusione alimenta l’identificazione egocentrica e genera sofferenza.
Il percorso verso la liberazione richiede una “decostruzione” di questa illusione, che Śāntideva articola attraverso diverse pratiche meditative:
- Impermanenza: focalizzata sull’esperienza diretta del cambiamento nei processi personali.
- Equanimità e karuṇā (compassione): rivolte all’interazione con gli altri.
- Analisi filosofica della vacuità: mirata alla comprensione teorica e universale.
L’obiettivo finale è andare oltre ogni separazione tra sé e ciò che erroneamente percepiamo come “altro,” raggiungendo una profonda trasformazione dell’esperienza di sé. Questa trasformazione implica il passaggio da un sé fisso a un flusso dinamico e interconnesso di esperienze. Solo riconoscendo l’interdipendenza di tutte le cose è possibile liberarsi dall’attaccamento e abbracciare una compassione autentica.
L’inter-essere come prospettiva contemporanea. Thich Nhat Hanh ha tradotto questi principi in un linguaggio accessibile e contemporaneo attraverso il concetto di inter-essere, che sottolinea l’interconnessione di tutte le cose:
Cosa c’è di permanente che possiamo chiamare un sé? […] Niente può esistere da solo. Ogni cosa dipende da ogni altra cosa. Questo è ciò che intendiamo con “inter-essere”. Essere significa inter-essere. […] L’inter-essere non è né essere né non essere. L’inter-essere significa essere privi di un’identità separata, vuoti di un sé separato. (Hanh, 2002, pp. 47-48)
Hanh prosegue enfatizzando che:
Non puoi essere da solo. Devi inter-essere con ogni altra cosa. (Hanh, 1988, p. 4)
Questa prospettiva contemporanea, radicata nella nozione di vacuità, riflette il messaggio centrale di Śāntideva. L’idea di “inter-essere” non solo descrive la base ontologica per la compassione universale, ma offre anche un ponte tra gli insegnamenti tradizionali buddhisti e la sensibilità moderna.
In sintesi, l’uguaglianza e lo scambio di sé e degli altri, come proposti da Śāntideva, rappresentano un potente strumento per la trasformazione personale e spirituale. Questa pratica non è solo un esercizio etico, ma un mezzo per destrutturare l’attaccamento egoico e rivelare l’interconnessione fondamentale tra tutti gli esseri. Sebbene l’approccio di Śāntideva possa apparire radicale, il suo richiamo a superare ogni distinzione tra sé e gli altri ci sfida a ripensare il concetto di compassione, spingendoci verso una comprensione più profonda dell’altruismo e dell’umanità.